Recensioni: “Ultimi versi” di Marina Cvetaeva

Una donna con la nostalgia di se stessa. Voland pubblica Ultimi versi di Marina Cvetaeva, raccolta tradotta e curata da Pina Napolitano.

“Quando mi chiedono: perché non scrivete poesie? come potete non scriverne? – io soffoco di indignazione per l’insensibilità, anzi la mancanza di cuore di questa domanda. […] Quali versi? Per tutta la vita ho scritto – per eccesso di sentimenti. Ora provo in eccesso – quali sentimenti? Offesa. Dolore. Solitudine. Paura. In quale quaderno si possono scrivere versi così??”

Sono poche le poesie che Marina Cvetaeva compone negli ultimi quattro anni di vita – dal 1938 al 1941 – o perlomeno sono poche quelle giunte fino a noi. Voland, in occasione degli ottant’anni dalla morte della poetessa russa, pubblica Ultimi versi. 1938-1941, la raccolta delle ultime poesie di una delle voci più drammatiche della letteratura russa della prima metà del Novecento.

La raccolta, tradotta e curata da Pina Napolitano, parte dal 1938, l’anno in cui la Cvetaeva, rimasta sola con il figlio Georgij, detto Mur, dopo la fuga – e poi l’arresto per ragioni politiche – del marito Sergej Efron e della figlia Alja, abbandona i sobborghi di Parigi per intraprendere il ritorno in patria dopo diciassette lunghissimi anni d’emigrazione. Un ritorno che non sarà affatto di gloria come – forse – la poetessa poteva immaginare.

Già emarginata dalla comunità di emigrati russi in Francia, Marina Cvetaeva troverà infatti la stessa ostilità in terra natia, osteggiata dalle istituzioni e costretta a elemosinare un posto di lavoro e un tetto sotto il quale ripararsi.

Sono neri, struggenti, amareggiati i versi estremi della Cvetaeva, parole contro il “pan Hitler” e contro gli orrori di una guerra che dava la sensazione di non cessare più, in specie dopo l’Operazione Barbarossa (giugno 1941) che portò allo scontro tra le superpotenze di Germania e Unione Sovietica, Hitler contro Stalin.

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“Brucerai, Germania!” scrive la poetessa, ma “bruciata” da lì a poco sarebbe finita lei, troppo vecchia e stanca per affrontare il fuoco che le ardeva dentro. Una donna con la nostalgia di se stessa e della sua epoca, finita ancor prima della fine in quella isba del villaggio di Elabuga dove si tolse la vita il 31 agosto 1941.

“È tempo di togliersi l’ambra,

è tempo di cambiare parole,

è tempo di spegnere la lanterna

sul portone [ ]”

Antonio Pagliuso