Recensioni “Un paese felice” di Carmine Abate

In Un paese felice, Carmine Abate racconta il “genocidio culturale” cui dovette soccombere Eranova, paese della Piana di Gioia cancellato dal “progresso”.

“Non succederà mai una cosa del genere. Chi può avere il coraggio di sbancare un paese intero e migliaia e migliaia di alberi per una merda di industria siderurgica che è pure in crisi, che non si farà mai?”

L’attesa che il tempo risolva da sé le cose, la speranza che gli avvenimenti volgano in autonomia per il meglio, che l’ipotesi più tetra non avvenga, che il disastro sia scongiurato, pur guardandoci bene dall’intervenire, indugiando nell’inerzia, senza la nostra ribellione, le nostre urla, il nostro sudore. Stiamo parlando di una inclinazione tipica dei sapiens, un difetto radicato, più accentuato a certe latitudini, più marcato all’interno di determinate società. Un misto fra fatalismo, indolenza, ignavia, pavidità, propensione a minimizzare, negligere e procrastinare, e ottimismo non giustificato dai fatti e dagli antefatti; una condotta all’apparenza innocua ma che, ampliatasi e inveteratasi, può rivelarsi letale, dando via libera ad autentici disastri.

Un disastro sociale e ambientale come quello raccontato da Carmine Abate, scrittore già Premio Campiello nel 2012, nel suo nuovo romanzo: Un paese felice, fresco di pubblicazione per Mondadori.

La storia è quella di un paese, Eranova, un nome che non dirà nulla ai lettori italiani, ed è pertanto fondamentale che uno scrittore ne abbia parlato, ché la minuscola vicenda di Eranova, scomparso centro agricolo della Piana di Gioia, in Calabria, si lega direttamente alla grande storia nazionale degli anni settanta, gli anni di Piombo, del terrorismo di sfumatura ora tendente al rosso, ora tendente al nero, ma pure gli anni della corsa sfrenata al benessere e al progresso, un clamoroso abbaglio che accecò l’intera Penisola, già irrimediabilmente schiava dell’omologazione culturale che andava avvoltolando il Paese, del conformismo, dell’“incultura”, riprendendo la terminologia di uno dei massimi intellettuali e voce profetica di quell’epoca, Pier Paolo Pasolini.

Un paese cancellato in nome del “progresso”

C’è un capitolo centrale, illuminante nel romanzo di Abate, incentrato sul racconto dell’estati felici di Eranova – con le spiagge pullulanti di bagnanti e contornate da rigogliosi agrumeti, vigneti e uliveti – e sulla sua lenta, implacabile distruzione per fare posto al Quinto centro siderurgico, punto cardine del disegno (in vero, uno scarabocchio) di industrializzazione del Mezzogiorno – il famigerato Pacchetto Colombo –, che avrebbe, secondo le intenzioni del governo, potuto risolvere molti problemi cronici del Sud – dalla disoccupazione alla emigrazione – ma che non sarà mai realizzato, convertendo il centinaio di miliardi di lire messo sul piatto in un pasto succulento per la criminalità organizzata.

Non innocenti, ma coscienti

Comincia così il capitolo, alla 152^ pagina delle 260 che compongono il volume:

“Ci sono momenti nella Storia in cui non si può essere innocenti, bisogna essere coscienti; non essere coscienti vuol dire essere colpevoli”.

Sono parole di Pasolini, sillabate da Lorenzo, voce narrante del romanzo e sotto alcuni aspetti alter-ego dell’autore – anch’egli figlio di emigrati in Germania, anch’egli studente all’Università di Bari –, dinanzi alle progressive azioni di cancellazione di Eranova e alla incerta presa di posizione di buona parte dei suoi abitanti, da un lato adirati per l’esproprio e l’allontanamento coatto dalle loro dimore e dalle loro proprietà per fare posto all’acciaieria e al porto commerciale a suo servizio, dall’altro allettati dal denaro offerto per andarsene e non intralciare la macchina del “progresso”. Carmine Abate si sofferma sulla relativa preoccupazione degli eranovesi, anche dopo la posa della prima pietra – con la benedizione di Giulio Andreotti, nel ’75 ministro del Bilancio e del Mezzogiorno – e l’arrivo delle ruspe, delle gru e delle draghe, convinti, fatalmente, che tutto finirà in un nulla di fatto, all’italiana.

Non coscienti della scure che s’approssima sui loro colli, quindi sì innocenti, ma al contempo colpevoli. Innocenti e quindi colpevoli.

La tenacia di Lina

Non innocente e non colpevole del “genocidio culturale” in atto è invece Lina, la ragazza di Eranova, determinata, combattiva, pasionaria, folle, decisa a non essere complice dello scempio annunciato che andava compiendosi.

“Credo di non aver mai conosciuto, né prima né allora né in seguito, una persona al mondo che amasse il proprio paese come lei.”

Sì, perché le premesse della sciagura c’erano tutte: la crisi della siderurgia già principiata, il precedente disastroso del Quarto centro siderurgico di Taranto, paradiso sullo Jonio che vide deturpata per sempre la sua pianura, la deficitaria programmazione, figlia di una decisione frettolosa indirizzata a compensare la “macchia” della mancata assegnazione a Reggio Calabria – nella cui area provinciale si trova la Piana di Gioia – del capoluogo di regione in favore di Catanzaro da cui scaturirono i violenti Moti di Reggio del 1970.

L’assassinio di Eranova

Fra le pagine di Un paese felice si assiste, in un crescendo di rassegnazione e smarrimento al cospetto dell’orrore, allo sfratto delle case (150 le famiglie di Eranova che dovettero abbandonare i propri tetti) e di centinaia di ettari di terreno, all’abbattimento di innumerevoli file di piante di ulivo, vite e agrumi, sterpate pur se cariche di frutti, senza nemmeno dare il tempo ai proprietari di effettuare la raccolta.

“È in quell’istante che lui si guarda attorno e, al posto del suo giardino, vede un deserto ancora senza cenere, le fiamme della montagnola che il vento spinge in direzione del mare, e infine un tappeto striato di verde e marrone. Ciò che resta del suo orto.”

L’apocalissi è avvenuta, la libertà è stata assassinata, delitto fotografato dal cumulo di piante morte e dall’esodo dei vinti verso i paesi vicini, rassegnati a un futuro da sradicati.

“Immagina che una mattina ti svegli e il tuo paese non c’è più.”

Eranova rivive nelle pagine di Un paese felice

La storia narrata da Carmine Abate parla in faccia a noi uomini del Ventunesimo secolo, concentrati e assoggettati unicamente al pensiero economico, del tutto disinteressati a quello ambientale che ci scuote dal nostro stato comatoso soltanto quando bisogna correre ai ripari, nelle situazioni – sempre più frequenti, quasi all’ordine del giorno – di emergenza, quegli eventi naturali, naturalissimi, che noi chiamiamo catastrofi climatiche – con tutta probabilità soltanto per scaricare la colpa a qualche entità occulta e per pulirci goffamente la coscienza.

E dato che le etichette di genere hanno poco a che fare con la letteratura, si può affermare che Un paese felice riesce a configurarsi anche un romanzo storico, perché racconta la parabola storica di un territorio – dalla fondazione alla eliminazione –, e financo un romanzo sociale, e perciò attualissimo, che permette di conoscere una civiltà scomparsa, una comunità cancellata dalle mappe e un popolo senza più identità.

Perché la potenza della letteratura consiste anche nella capacità di combattere le amnesie di massa verso le “piccole” storie di periferia e di portare a una platea più ampia la conoscenza di vicende rimosse in maniera infida e crudele, e forse anche con piena intenzionalità, dalla coscienza collettiva.

Antonio Pagliuso