Celebriamo la giornata internazionale dei diritti della donna dell’8 marzo con un monologo di Silvia Camerino, autrice del libro reportage Un giorno questa terra sarà bellissima, già premio Muricello e vincitrice del Concorso Nazionale Letterario Artisti per Peppino Impastato, dal titolo Un vestito color del cielo, ovvero il delirio di un uomo ossessionato dal possesso della sua donna.

L’osservo io, l’osservo sempre. Quella mia donna che suole elargirsi al mondo, mentre resto indietro e giustifico il suo passo, che si incammina insieme ad altri innumerevoli passi che non m’appartengono.

L’osservo io, l’osservo sempre. Mentre asciuga le lagrime sul mantello di un’anima che vorrei scorgere solo io, poiché son uomo delle stagioni, della sua primavera che è l’inverno mio, d’ogni tenerezza incompresa, doloso azzardo avverso al suo esistere teneramente insieme a me.
Ahimè! Questa tenerezza non l’ho capita mai!

Alle volte mi pare che ella sia un fiore schiuso dentro al pugno di una rosa, i cui petali di vetro, irrompono nel disastro delle mie impressioni. I suoi petali schiusi che gravitano intorno al sole per un nonnulla, e sanno spaziare all’infuori d’ogni considerazione inchiodata, crocifissa dalle mie accuse.

L’osservo io, l’osservo sempre. Quella mia donna di proprietà che è stata quand’era bambina di proprietà di qualcuno ma, quando le impongo d’esistere per me si scuote tutta in un movimento, e fugge lontano dall’alba timida dei miei giorni.
Ribadisce che l’amore sia libero dal turbamento, dall’ossessione di avere il controllo sulle cose che vivono, ed ella è forse una cosa che respira, o una persona che respira per la vita che è la mia vita.

Dovrebbe ringraziarmi di aver incontrato un uomo come me.

Ciò che accade all’infuori della nostra relazione non è rilevante ma fintanto che resto dove sto, immobile ed erto verso di lei, la inseguo per proteggerla dall’idea che qualcuno oda il respiro di una cosa di mia proprietà, che tutto può fare ma mai all’infuori di me.

L’osservo io, l’osservo sempre. Mentre presta il sorriso alla gente. L’invisibilità della sua presenza danza per le strade e si dimena come fosse una mina impazzita che non conosce odio, come infatti, lei esplode in virtù della beltà, ed io non capisco come possa veicolare il suo proposito verso una strada diversa, o sostare dirimpetto ad uno specchio menzognero che dovrebbe proiettare il nostro legame cucito, eterno, scandagliato e scudo di pelle su pelle che scorta le ossa allo stridio del vuoto, che se la natura un giorno vorrà separare, dovrà scontrarsi con me.

Io non l’accetto mica la separazione. Sono nato uomo di un’epoca padrona e mille donne posso avere, ma lei è gravida d’amore e forse di qualche ceffone che l’annega nel pianto, ma il mio compito è quello di educarla ad esser donna.

La mia donna che osservo sempre perché è mia!

L’osservazione, lei la definisce ossessione.

Lei cammina.

Io corro.

Lei urla.

Io mostro davanti al suo spettro l’impunità della mia ombra che è violenza.

Dimostratemi, voialtri, che la mia ombra nera l’ha sfiorato quel fiore! Dimostratemi che sono colpevole perché l’ho massacrata con morsi di fuoco, pizzicotti di carne e tumuli di lividi che la dipingono di un ombretto che non riconosce.

Io glielo ripeto spesso che è bellissima, ma gli altri uomini non possono.

Solo io l’osservo.

Solo io l’amo più degli altri ed allora vinco, vinco di più, vinco più forte.

“Un vestito color del cielo”, un monologo dell’autrice Silvia Camerino
Foto di Isi Parente da Unsplash

Pretendo che nessuno sentenzi sul mio modo d’osservarla sempre! Pretendo che mi diciate che è il bello e il giusto si collocano sulle pareti adornate dall’esilarante follia, che la trascina nell’oblio ogniqualvolta cado, e l’innalza se m’innalzo io.

Oggi l’osservavo. Lei la chiama ossessione. Io l’osservavo nel fatto, nell’evoluzione del suo mostrarsi donna frapposta al dolore di un’anima fragile. Mi risponde con l’indignazione nei denti.
Mi restituirebbe il morso. Lo percepisco, anzi, son sicuro che mi restituirebbe i baci coi pugni che nascondo dietro al rancore di non poter stare al suo passo.

Lei avanza.

Io mi fermo.

Corro.

Lei sosta.

M’innalzo ed ella s’abbassa.

S’innalza e m’abbasso io.

Non riesco a rincorrerla.

Non riesco a capirla.

Perché s’è dipinta sul volto l’ingratitudine dei miei fiori stirati?

Perché non esegue il comando del mio amore?

Perché mi accusa d’essere deviato?

Perché s’è colorata le labbra di rosso?

Le mie mani temono l’impatto con la sua pelle diafana, che si dispiega ogniqualvolta l’azzardo di uno schiaffo, s’attutisce nello starnuto dell’ira cocente.

Oggi aveva un vestito color del cielo, che cadeva fintamente sui fianchi asciutti. Lei è uno scheletro arido ormai. Le ribadisco che il suo dolore non può rompere né incastrarsi all’immagine sua.
Le ripeto che agli uomini garbano le donne con indosso le forme, i capelli liberi dalle code assaltate, che svelano l’infelicità costante di un amore criminale.

Io non sono l’assassino, sono un martire!

Perché il suo vestito color del cielo, che cade fintamente sui fianchi è l’indizio che ella è innamorata di un altro amore, e le cose di proprietà che respirano per gli altri non le concepisco.

La mia ombra nera s’è alzata in piedi. Ha chiesto perché fosse così infinitamente bella, anche in quella bruttura di dolore che qualcuno aveva creato, ma non io! Non la mia ombra!
Lei si è agitata come s’agitano i capelli di pioggia alla commozione del cambiamento, era lì, dirimpetto a me che teneva le mani che si accarezzavano come colombe, forse, incoraggiate alla resistenza. Aveva imparato una lingua strana che pronunciava suoni stonati, disastrosi, dolenti, colposi, coraggiosi, verosimiglianti alla parola fine.
La vena maestra s’è gonfiata sul mio collo senza testa, o una testa c’era ma non era la mia. Era la testa dell’ombra, ed allora ho vomitato il piombo dell’odio sulle sue guance scarne, che pungevano come spilli.

T’educherò perché sei cosa mia!

T’educherò perché sono il padrone di un’epoca che non conosce separazione. Due ceffoni, un pugno ed ella è caduta come su un prato, voleva attutire il boato, mi pregava di smetterla ma io ero affranto.

L’osservavo ossessionato dal suo vestito color del cielo che custodiva il ricordo della follia, divampata come un incendio appiccato da un piromane instabile.
Un musicista che strimpella note che deragliano avverso il braccio, che mi pare un ramo di un albero dalle radici profonde quanto le sue lagrime, grosse come una perla bianca che brillano di una luce che m’acceca.

Lei s’abbassa, ed io m’innalzo.

Lei piange, io rido.

Lei urla, io fingo di ascoltare.

Lei si trascina, varcando la porta di casa ed io la inseguo.

Lei si perde nella via del giorno.

Io mi ritrovo le botte attaccate sulle mani.

Le sue lagrime di perla bianca, oggi sognano.

Io non l’osservo più.

È lontana oramai.

Lontana da me.

Lontana dall’ombra con una testa che non c’è.

Silvia Camerino

Foto di Houcine Ncib da Unsplash