L’ultima lettera di John Keats, il poeta “il cui nome fu scritto nell’acqua”

Il 23 febbraio di duecento anni fa moriva a Roma, giovanissimo, il grande poeta inglese John Keats. Il suo corpo è seppellito nel cimitero acattolico della Capitale.

“Scrivere una lettera è per me la cosa più difficile del mondo. Lo stomaco continua a farmi male, e sto ancora peggio se apro un libro – e tuttavia sto meglio di quando ero in quarantena. E poi ho paura di dover fare i conti con i vantaggi e gli svantaggi di quel che mi interessava in Inghilterra. Ho la sensazione continua che la mia vita reale sia già passata, e di star quindi conducendo un’esistenza postuma. […] Se guarisco, farò di tutto per correggere gli sbagli che ho fatto durante la malattia; se non guarisco, tutte le mie colpe verranno perdonate. […] Riesco a malapena a dirti addio, anche per lettera. Sono stato sempre impacciato nel prendere congedo. Dio ti benedica!”

Questa è l’ultima lettera che John Keats scrisse all’amico Charles Armitage Brown. La missiva, datata 30 novembre 1820, precederà di tre mesi la morte del poeta che avverrà, dopo un breve ma atroce periodo di malattia, il 23 febbraio 1821.

Le opere di John Keats

John Keats, nato a Londra il 31 ottobre 1795, diventò famoso molto giovane grazie alla composizione – tra il 1818 e il 1819 – di opere amatissime come Poesie, la sua prima raccolta di poesie che contiene i versi di Sonno e poesia, e il poema Endimione, in cui, con l’allegoria della storia del personaggio della mitologia greca, Endimione, dimostrò quanto, seppur troppo spesso non la notiamo, la bellezza ci circonda in ogni attività che compiamo, in ogni alba, nel sorriso della persona amata:

“Una cosa bella è una gioia per sempre:
Si accresce il suo fascino e mai nel nulla
Si perderà; sempre per noi sarà
Rifugio quieto e sonno pieno di sogni
Dolci, e tranquillo respiro e salvezza”.

Altre opere che gli valsero la notorietà furono l’Hyperion, sempre attorno al tema della bellezza, e Lamia, incentrato sul drammatico dissidio tra ragione e sentimento, tra testa e cuore. La poesia del prodigioso ragazzo è segnata da una forte componente sensuale che ne fece uno dei più eminenti esponenti del romanticismo.

L’arrivo in Italia e la morte

John Keats fu un lampo luminosissimo che si spense un attimo dopo aver abbagliato il mondo.

Di salute cagionevole dopo aver contratto una forma assai virulenta di tisi, Keats ascoltò i medici che gli consigliarono di lasciare Londra e il suo clima sfavorevole per un clima più temperato come quello italiano. Il giovane poeta abbandonò per sempre Londra il 13 settembre 1820 a bordo del brigantino Maria Crowther.

Il soggiorno italiano nacque subito sotto una cattiva stella. Durante il lungo viaggio, l’imbarcazione su cui si trovava Keats si ritrovò al centro di una tempesta marina che la costrinse a ormeggiare a Napoli. Qui il poeta fu subito bloccato e messo in quarantena: in Inghilterra, infatti, era scoppiata una epidemia di colera e vedendolo molto debilitato, se non già malridotto, i soldati del Regno delle Due Sicilie lo costrinsero a un periodo di isolamento. Intorno alla metà di novembre riuscì a raggiungere finalmente Roma. Prese alloggio in una casa in piazza di Spagna, ma l’inverno che trovò nella Capitale non fu affatto così tenue come gli avevano delineato i medici londinesi.

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Le condizioni di John Keats cominciarono a peggiorare e il poeta non si rimise più. Il 23 febbraio 1821 morì nel suo alloggio alla destra della scalinata di Trinità dei Monti, dove oggi si trova la casa museo Keats-Shelley (aperta nel 1909 e dedicata, oltre che a Keats, anche al coevo poeta britannico Percy Bysshe Shelley). Al momento della morte John Keats aveva soli venticinque anni.

L’epitaffio di John Keats

Il suo corpo è sepolto nel cimitero acattolico di Roma. Sulla sua tomba, secondo le ultime volontà del poeta, non furono riportati né il nome né alcuna data, ma soltanto il seguente epitaffio:

“Questa tomba contiene i resti mortali di un giovane poeta inglese che, sul letto di morte, nell’amarezza del suo cuore, di fronte al potere maligno dei suoi nemici, volle che fossero incise queste parole sulla sua lapide: ‘Qui giace un uomo il cui nome fu scritto nell’acqua’.”.

Antonio Pagliuso