Nadsat, latte più e ultraviolenza: 60 anni di “Arancia meccanica”

Sessant’anni fa usciva in sordina Arancia meccanica di Anthony Burgess, il romanzo che ci mostrò quanto l’animo umano sia fragile e macchinale, come un congegno a orologeria. Stanley Kubrick lo rese immortale con il celeberrimo film.

È da sessant’anni che siamo fuori come un’arancia a orologeria, ovvero un’arancia meccanica. Eh già, perché se lo scorso autunno abbiamo celebrato i cinquant’anni dell’uscita del memorabile Arancia meccanica di Stanley Kubrick, in questi giorni di febbraio ricorrono i sessant’anni dalla prima pubblicazione del romanzo di Anthony Burgess (1917-1993) da cui è tratto il capolavoro del pluripremiato regista già premio Oscar per 2001: Odissea nello spazio.

Dalla carriera militare alla scrittura

Nato il 25 febbraio 1917 a Harpurhey, un sobborgo di Manchester, da Joseph ed Elizabeth, Anthony Burgess riceve una rigorosa educazione cattolica impartitagli dalla zia Ann, ché la madre perisce di spagnola nel tremendo autunno del ’18, quando il piccolo Anthony ha appena un anno. Completati gli studi con il Bachelor of Arts in letteratura e lingua inglese, dal 1940 al 1946 Burgess si dedicata interamente alla carriera militare. Sono gli anni della Seconda guerra mondiale, violenza e morte scandiscono le giornate e non risparmiano nessuno, anche il futuro scrittore che un giorno del 1942, mentre si trova a Gibilterra, viene informato che sua moglie, Llewela “Lynne” Isherwood Jones, ha subito una violenza di gruppo da parte di alcuni disertori americani. Stupro che la porta a perdere il bambino che ha in grembo.

Il conflitto termina e negli anni cinquanta Burgess inizia a insegnare prima in Malaysia e poi in Brunei e a concentrarsi sempre di più sulla scrittura, anche per allontanare gli atroci ricordi della guerra. Nel 1956 vede la luce L’ora della tigre, il primo dei tre romanzi della Trilogia malese dell’autore inglese. Lavori interessanti, esotici, ma secondari e tali resteranno, ché l’opera destinata all’immortalità è dietro l’angolo.

1962, l’anno di Arancia meccanica

Ambientato nel futuro prossimo – il nostro caotico presente? –, Arancia meccanica è un concentrato di ultraviolenza e ferrea repressione. Il romanzo si apre con la manifestazione della più belluina crudeltà dell’antieroe Alex – autoproclamatosi The Large, poi mutato, nella pellicola, nel cognome DeLarge –, appassionato tanto di violenza quanto di musica classica, in nessun ordine particolare, l’una gasolio dell’altra, combustibile e comburente, comburente e combustibile, ché le due cose si alimentano a vicenda nel cuore nero del capo dei drughi – gli amici, i compari, parola che è una evoluzione artistica del termine russo друг, letto drug, che significa, appunto, amico.

Il nadsat, lo slang anglo-russo dei drughi di Burgess

Caratteristica preponderante del romanzo è infatti il linguaggio inventato da Anthony Burgess, fine poliglotta e amante di linguaggio in ogni sua forma (questa passione per le lingue si riverberò anche nella sfera privata dato che sposò, in seconde nozze, una traduttrice e agente letteraria, l’italiana Liana Macellari, nativa di Porto Civitanova, nelle Marche).

È il nadsat, la lingua artificiale dell’opera che mescola parole estratte con cura da vari dizionari: inglese, russo, dal linguaggio giovanile postatomico. Un intruglio dal quale emerge un vocabolario esplosivo: sporco, ma alto, aggressivo, ma letterariamente affascinante.

La cancerosa è, per ovvie ragioni, la sigaretta; le gulliver – ovvero le teste – che Alex vuole spaccare in due sono affini, per consonanza, al russo голова, golova, vale a dire testa, così come dal russo origina il moloko, il famoso latte più – il “più” sottende l’aggiunta di sostanze stupefacenti, per intenderci – di cui i drughi sono golosi (молоко, cioè latte).

L’uomo è sballato come un’arancia a orologeria

E curiosa è pure l’origine del titolo dell’opera: Un’arancia ad orologeria – traduzione più fedele dell’originale A Clockwork Orange – deriva da un modo di dire dello slang londinese: “sballato come un’arancia a orologeria”. Una frase che si collega agli impulsi ancestrali per cui l’uomo può fare o il bene o il male a seconda del contesto in cui si trova, meccanicamente, come fosse un congegno a orologeria e non più un essere umano dotato di raziocinio, capace di scegliere, financo di fermarsi un attimo prima del baratro.

60 anni di Arancia Meccanica
Foto di Christopher Dombres condivisa da Wikipedia con licenza CC BY 2.0

Un’arancia ad orologeria – il libro fu pubblicato con questo titolo fino ad anni novanta inoltrati quando si scelse di virare verso il “filmico” Arancia meccanica – giunge in Italia nel 1969 e colpisce i lettori per i suoi eccessi, la violenza senza limiti che trabocca dalle pagine, pagine barbare che contengono però una critica diretta alla deriva sociale dell’epoca, a un mondo che, grazie ai progressi della tecnica e della tecnologia, si illude di conoscere tutto e potere dare una soluzione a ogni cosa, ma che in realtà si barrica dietro la propria indifferenza e fatuità.

In libreria la nuova edizione del romanzo

La punizione, l’unica, banale risposta possibile, inflitta inesorabilmente dallo Stato per contenere le intemperanze dello “sballato” drugo, si rivela “un corso accelerato in terapia repulsiva” scrive il saggista e critico letterario Martin Amis nella presentazione all’interno della nuova edizione di Arancia meccanica, in libreria dal 15 febbraio per i tipi di Einaudi con la curatela di Andrew Biswell e la nuova traduzione di Marco Rossari.

È la cura Ludovico: farmaci abbinati a lunghissime e costanti sedute dinanzi alle immagini cruenti di stupri, esecuzioni capitali, cadaveri ammucchiati che ora, viste con sguardo esterno, turbano il giovane protagonista fino a condurlo alla nausea e da lì – non potrebbe essere altrimenti – alla redenzione. Il castigo è consumato, il delitto è espiato.

Un successo in differita

Eppure, va detto, per terminare, che la pubblicazione, sessant’anni fa, del romanzo fu abbastanza sottotono. Le recensioni in chiaroscuro – il The Observer definì l’opera un lavoro dell’orrore allegro, mentre The Sunday Times la stroncò in quanto “molto ordinaria, brutale e psicologicamente superficiale” – portarono a poco più di quattromila di copie vendute sul mercato britannico nei primi mesi di uscita: un approccio inconsistente che fece imboccare ad Arancia meccanica quel viale del dimenticatoio cui, oggi come allora, è diretta la quasi totalità dei libri pubblicati ogni anno.

Destino amaro da cui l’opera fu salvata dall’uscita nel 1971 del celeberrimo lungometraggio di Stanley Kubrick e, susseguentemente, da un crescente nuovo interesse per il romanzo, oggi annoverato dal Time tra i cento migliori libri in lingua inglese.

Di certo non il primo né l’ultimo caso in cui un film sovrasta in notorietà il romanzo da cui è tratto: per citare altri capisaldi del cinema universale, è successo a Psycho di Robert Bloch (1959) – nel 1960 la indimenticabile pellicola di Alfred Hitchcock –, al Padrino di Mario Puzo (1969) – del 1972 la prima parte del film per la regia di Francis Ford Coppola –, è accaduto con Lo squalo di Peter Benchley (1974) – dell’anno seguente il film campione d’incassi di Steven Spielberg.

Chi ha detto che una trasposizione cinematografica possa arrecare danno a un romanzo?

Antonio Pagliuso

Foto di Stanley Kubrick – Trailer of A Clockwork Orange (1971) di pubblico dominio condivisa da Wikipedia