A cento anni dalla nascita, ricordiamo l’ultima provocazione di Pier Paolo Pasolini. Una proposta choc volta a eliminare la criminalità in Italia: abolire la tivù e la scuola dell’obbligo.
Solitario, contradditorio, provocatorio, irrazionale, quindi libero: non basterebbe una sola testa a partorire aggettivi bastevoli a inquadrare, seppur parzialmente, l’uomo, l’intellettuale, l’artista Pier Paolo Pasolini.
A cento anni dalla nascita – Pasolini veniva al mondo il 5 marzo 1922, una domenica, a Bologna, in una casa di via Borgonuovo, a poche centinaia di metri dalle due torri simbolo del capoluogo emiliano – sono in tanti a ricordarne le battaglie, le polemiche, gli elzeviri, il pensiero, sovente profetico e di fortissima attualità. Solitario, contradditorio, irrazionale, provocatorio, dicevamo; soprattutto provocatorio, ché Pasolini amava provocare il suo pubblico, i suoi nemici ma anche i suoi amici (celebre la sua stroncatura a La storia di Elsa Morante), scandalizzare anche – “Penso che scandalizzare sia un diritto, essere scandalizzati un piacere” sosteneva, senza celare un velo di autocompiacimento.
Scandalizzare e provocare con i suoi attacchi a mezzo stampa, come quelli contro la Democrazia cristiana, contro il Partito comunista italiano, contro i poteri forti (da rileggere il suo Io so, ovvero l’articolo del novembre ’74 dal titolo Che cos’è questo golpe?), alieno a quel “politicamente corretto” che oggi ammorba il nostro presente.
Pier Paolo Pasolini, tra provocazioni e spunti di riflessione
Pungente e provocatorio, come quando sosteneva l’impossibilità di distinguere un fascista da un antifascista, tanto erano oramai uguali, intercambiabili, omologati nei gusti, nel lessico, financo nell’abbigliamento quei due “tipi” all’apparenza appartenenti a due poli opposti; oppure quando, negli scontri di Valle Giulia (1º marzo 1968) tra manifestanti universitari e polizia, si schierava in favore delle forze dell’ordine, ché erano quelli i figli dei proletari, degli operai; erano quelli gli ultimi, i poveri cristi, i “ragazzi di vita” cui doveva le sue fortune letterarie, e non gli studenti, frutto della borghesia romana, figli di imprenditori, commercialisti, medici. O ancora, con la promozione dell’omosessualità, in primis per dare un freno alla sovrappopolazione del globo e in secundis da adottare come cura alle ossessioni e ansie che attanagliano il “maschio, bianco, etero” costretto a dover dimostrare costantemente la propria virilità.
Insomma, se dovessimo giocare alla pesca all’aggettivo più robusto per definire – gesto abominevole, lo so – PPP, parteggeremmo per provocatorio. Provocatorio nelle sue esternazioni che erano volte a stimolare l’analisi del popolo, ad accendere un dibattito, a buttare giù le spesse mura dei luoghi comuni e a invertire la rotta di quell’involuzione antropologica, quel genocidio sociale e culturale che si stava compiendo senza che nessuno se ne accorgesse, che stava irrimediabilmente “bruttando” la società. La sua più grande, straordinaria utopia.
L’Italia degli anni settanta, d’altra parte, offriva al poeta e intellettuale infinite ragioni per suscitare polemiche e discussioni. Una società che, dopo la contestazione studentesca del ’68, vedeva i giovani guadagnare sempre più spazio e voce all’interno della famiglia e del contesto sociale e politico. Giovani che però, agli occhi di Pasolini, si dimostravano artefici di una rivoluzione rumorosa sì, ma fine a se stessa, reboante ma senza un orizzonte chiaro cui volgere.
Giovani sempre più aggressivi, ingestibili, arroganti e, in buona sostanza, frustrati da una società, quella dei settanta (gli anni di piombo, rimembriamolo), che pretendeva da essi il massimo pur guardandosi bene di offrir loro strumenti adeguati a supportarne le idee. Difficoltà che rendevano quei giovani arrabbiati e più facili a scendere nei gironi più bassi dell’Ade della comunità, a patti con le organizzazioni criminali. E allora cosa fare? Sguinzagliare plotoni di militari e forze dell’ordine capaci solo di alimentare ulteriormente i disordini? No, molto meglio propendere per un’altra azione, egualmente grintosa, ma più efficace: cancellare la scuola media d’obbligo e abolire la tivù dalle case degli italiani.
Questa la proposta choc che il 18 ottobre 1975, quindici giorni prima della sua tragica e tuttora avvolta da ombre morte sul litorale di Ostia, lanciava Pier Paolo Pasolini attraverso le colonne del “Corriere della sera” (l’estratto è oggi raccolto nella terza parte del volume Lettere luterane, una raccolta di articoli che l’intellettuale pubblicò sulla testata fondata da Eugenio Torelli Viollier nell’ultimo anno della sua esistenza).
Due modeste proposte per eliminare la criminalità in Italia, l’ultima provocazione di Pasolini
“Bisogna ammettere una volta per sempre il fallimento della tolleranza” scriveva lo scrittore e regista nato esattamente un secolo fa, nell’anno zero del fascismo. Una tolleranza fasulla, propinata da una classe politica sempre meno autorevole e credibile, e quindi bisognosa di affabulare, di trovare nuove vie per raggiungere il consenso, e da una scuola e una università “ormai cristallizzate in un immobilismo esasperante”, che ha prodotto il solo effetto di snervare e avvilire crescenti masse di giovani sempre più inclini alla violenza e al malaffare.
Una proposta in chiave utopica, provocatoria, “umoristica”, precisazione manifestata fin da subito, ma che PPP argomentava alla sua usuale maniera: “La scuola d’obbligo è una Scuola di iniziazione alla qualità di vita piccolo borghese: vi si insegnano delle cose inutili, stupide, false, moralistiche, anche nei casi migliori”.
Per quale ragione tale durissimo giudizio?
Perché “una nozione è dinamica solo se include la propria espansione e approfondimento” spiegava il poeta. “Imparare un po’ di storia ha senso solo se si proietta nel futuro la possibilità di una reale cultura storica. Altrimenti, le nozioni marciscono: nascono morte, non avendo futuro, e la loro funzione dunque altro non è che creare, col loro insieme, un piccolo borghese schiavo al posto di un proletario o di un sottoproletario libero (cioè appartenente a un’altra cultura, che lo lascia vergine a capire eventualmente nuove cose reali, mentre è ben chiaro che chi ha fatto la scuola d’obbligo è prigioniero del proprio infimo cerchio di sapere, e si scandalizza di fronte ad ogni novità). Una buona quinta elementare basta oggi in Italia a un operaio e a suo figlio. Illuderlo di un avanzamento che è una degradazione è delittuoso: perché lo rende: primo, presuntuoso (a causa di quelle due miserabili cose che ha imparato); secondo (e spesso contemporaneamente), angosciosamente frustrato, perché quelle due cose che ha imparato altro non gli procurano che la coscienza della propria ignoranza.”
La coscienza della propria ignoranza, nonostante una lunga e costante – e spesso costosa – istruzione scolastica. Una condizione che si riverbera anche nell’anatema verso la televisione.
Aggressivi fino alla delinquenza o passivi fino alla infelicità
Nel suo pezzo, infatti, Pier Paolo Pasolini proseguiva, con tono quasi infastidito dal dovere ritornare su un punto già affrontato svariate volte, dicendo che se i modelli sono quelli che avanzano in tivù, “come si può pretendere che la gioventù più esposta e indifesa non sia criminaloide o criminale?”. Perché mai, ci chiediamo a questo punto. La televisione ha dato avvio a una nuova era, “era in cui dei giovani insieme presuntuosi e frustrati a causa della stupidità e insieme dell’irraggiungibilità dei modelli proposti loro dalla scuola e dalla televisione, tendono inarrestabilmente ad essere aggressivi fino alla delinquenza o passivi fino alla infelicità (che non è una colpa minore).”
E concludeva, arrendendosi al fallimento anche della sinistra, rimarcando che sei “i progressisti hanno veramente a cuore la condizione antropologica di un popolo, si uniscano intrepidamente a pretendere l’immediata cessazione delle lezioni alla scuola d’obbligo e delle trasmissioni televisive”.
Traboccano rabbia questi righi del letterato; rabbia contro quei giovani infelici che non riescono a ribellarsi ai modelli imposti dalla società e dalle vecchie e nuove “balie” che rispondono al nome di scuola e tivù. Ce l’ha con quei giovani inerti, umiliati, incapaci di capire ancor prima di reagire. Genuflessi al dovere patrio: il dover diventare dei buoni borghesi, studiare per dimostrare di essere all’altezza, fare piacere agli altri, non deluderli, anteponendo la felicità altrui alla propria. È un Pasolini che vede i cambiamenti corrergli dinanzi gli occhi senza che gli altri – segnatamente i ragazzi – se ne accorgano; che prova ad avvertirli, a lanciare l’allarme, di inchiodare, aspettare, pensare, ché la direzione intrapresa è quella errata.
Pier Paolo Pasolini, un pensiero sempre contemporaneo
L’attualità delle parole del Poeta – contenute, oltre che nel citato Lettere luterane, anche in altre raccolte tipo Scritti corsari – è riconosciuta da tempo e il compito di noi posteri è quello di non smettere di riflettere sui suoi spunti e di continuare a interrogarci, non restando in superficie, sulle trasformazioni della nostra travagliata epoca, principiate in quel tempo storico di cui Pasolini fu protagonista indiscusso e di cui ancora oggi vediamo appalesarsi, per adottare un termine molto à la page, le “varianti”.
Antonio Pagliuso
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