Recensioni: “Avrei voluto scriverti cantando” di Olimpio Talarico

“Chi ha ucciso zio Vincenzo? E nonno Tenimento? Com’è morto? […] E poi la mamma? Che fine ha fatto la mamma? Non credi che ormai io abbia l’età per conoscere la nostra verità?”

Sono queste domande in cerca di risposte che tracciano la strada, avanti e indietro nella storia – una storia comune, non soltanto personale –, di Avrei voluto scriverti cantando, l’ultimo romanzo di Olimpio Talarico.

Storie accatastate l’una sull’altra, storie che si trasformano in catene da cui liberarsi, perché il passato preme, atrofizza i movimenti, le scelte, e si carica come un’onda, pronta a travolgere tutto, per poi riportare la quiete.

E sono tante le storie del passato che si appalesano nel romanzo edito da Compagnia editoriale Aliberti, il quinto dello scrittore calabrese che giunge a tre anni dall’uscita di Cosa rimane dei nostri amori, proposto da Ferruccio de Bortoli al Premio Strega del 2020.

Domande in cerca di verità

Stimolato dalle risolute domande della figlia, Leonardo, la voce narrante dell’opera, scava dentro sé, ritrovando nei recessi della mente fotogrammi sbiaditi, flash di un trascorso di comunità, quella di Caccuri, paesino di circa mille e cinquecento anime dell’entroterra crotonese segnato da sconvolgimenti improvvisi, episodi che ne hanno interrotto il futuro, vicende locali fuse a quelle patrie; come l’avvento del regime fascista anche negli angoli più remoti del Regno, laddove la violenza era già endemica, esercitata dai capibastone del posto, quelli che speculano sulla esistenza di stenti dei più, le vite offese degli ultimi, le donne e gli uomini senza alcuna possibilità di riscatto e di elevazione sociale.

Le vessazioni quotidiane delle classi subalterne

Ultimi e invisibili, come i braccianti e gli operai costretti, al termine della massacrante giornata di lavoro, a scappellarsi al passaggio di Luigi Casalinovo, detto ‘U rre, il padrone di Caccuri. Famiglie oppresse e illuse, abbrutite, incenerite dentro, ché anche la speranza di scrivere una nuova pagina di vita altrove, volta a recuperare la propria dignità, appare una chimera impossibile da raggiungere.

È il vento intimidatorio, quello della irrisolvibile subalternità che percorre senza requie le antiche stradine di Caccuri, un paese che è sempre protagonista nei romanzi di Olimpio Talarico e che l’autore ha reso famoso anche oltre i confini regionali – attraverso le pagine dei suoi libri, ma pure grazie alla creazione del Premio Caccuri di cui Talarico è creatore e vicepresidente. Un paesino interno che di recente ha deciso di “sdebitarsi” col suo figlio, installando lungo tutto il centro storico, grazie all’idea della Associazione culturale Arte in Gioco, trentacinque mattonelle con incise altrettante frasi tratte dai suoi lavori.

“Per alcuni minuti mi sedetti sui gradini di Santa Maria delle Grazie per vedere una terra stendersi all’infinito: prima le colline di Gallea, più avanti il corso del Neto e le bonifiche, in fondo lo Jonio con il faro di Capocolonna.”

Caccuri, irrinunciabile protagonista dei romanzi di Olimpio Talarico

Parliamo di Caccuri come se fosse animato, un personaggio in tutto e per tutto, col palpitare delle sue viuzze, odorose di zagare, di mimose e di mosto in fermentazione, il chioccolio del torrente, lo scirocco che soffia fra gli ulivi da potare, la luce che illumina i tetti delle casupole e dei palazzi sovrastati dal castello medievale, silenzioso “garante di un’atmosfera sospesa”, con la sua iconica torre risalente alla fine dell’Ottocento, e le colline che digradano verso il Mare Jonio che tanti popoli hanno attraversato e attraversano tutt’oggi in cerca di nuovi orizzonti di vita, nuove possibilità.

Una chance di emancipazione, di riprendere in mano il proprio presente, proiettandosi con serenità all’avvenire, che riguarda anche Leonardo e gli altri protagonisti di Avrei voluto scriverti cantando. Tutti in cerca di un futuro migliore, per sé e i propri cari, di superare gli interrogativi sospesi, le parole mancate, di sanare, adoperando l’unguento dell’amore, le ingiustizie e le ferite per troppo tempo lasciate aperte. Credendo dentro di sé che non sia necessario sempre fuggire dalla propria terra.

Antonio Pagliuso