Recensioni: “Quando le belve arriveranno” di Alfredo Palomba

Tra i settantaquattro candidati al prossimo Premio Strega, Quando le belve arriveranno di Alfredo Palomba è un romanzo in cui i protagonisti si presentano come pezzi di carne cruda dipinti all’acquerello. Un libro che ci porta a interrogarci sulla vera natura dell’uomo e sulla bestialità celata sotto il velo dell’apparenza.

Quando le belve arriveranno di Alfredo Palomba (Edizioni Wojtek) è uno dei romanzi candidati al Premio Strega di quest’anno. La sua carta migliore è la presenza sottotraccia di una quaestio fondamentale, una domanda eterna sottesa da una storia che si sforza di essere anonima, ambientata in luogo che di certo lo è altrettanto. Ma questo nulla, ovviamente, non viene raccontato per caso. Soprattutto perché a raccontarlo è un protagonista dalla sensibilità acutissima, un giovane che vive protetto suo malgrado da un’indifferenza atavica, apparentemente isolante rispetto ai sentimenti e alle emozioni. La sua è quasi una corazza, capace di difenderlo prima da una situazione familiare infelice ai limiti del paradosso, poi da un lavoro quasi altrettanto triste – che comunque è solo una scusa per fuggire da casa.

Passano sotto la lente d’ingrandimento dei suoi occhi disillusi una serie di personaggi grotteschi: la madre alcolizzata che cerca maldestramente di nasconderlo, la nonna-pianta in stato vegetativo, la coppia improbabile degli affittuari Vanni e Patti, la giovane collega Francesca, Ronco L’etilista, e Haochen, il ragazzino cinese – tetraplegico e quasi privo di parola – di cui il protagonista è insegnante di sostegno.

La sua voce narrante li descrive impietosamente, ma con il tocco delicato e meticoloso di chi rimane distaccato, senza cercare un contatto, senza provare mai nulla che non si risolva semplicemente in un invisibile, lieve disgusto. Il suo sguardo li trasforma in qualcosa di distante, a volte di minaccioso, a volte di marcio, e sono per il lettore come pezzi di carne cruda dipinti all’acquerello.

Ma progressivamente la loro inerzia si impregna di una vitalità decisamente pericolosa, e il mondo diventa come uno zoo di animali senza sbarre, animali capaci di disvelare da un momento all’altro la brutalità nascosta abitualmente dai modi affettati del vivere civile, oltre la gabbia della razionalità.

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È questa situazione ad alimentare nel lettore l’interrogarsi sulla vera natura dell’uomo, sulla bestialità celata sotto il velo dell’apparenza – un aspetto che potrebbe essere solo negli occhi disperati del protagonista che osserva, ma che potrebbe anche non esserlo. Ad ogni modo è lui che ne scruta l’epifania, mentre la sua stanza in affitto rimpicciolisce rischiando di inghiottirlo e la sua vita si trasforma in un incubo ad occhi aperti. Ne rimane fuori solo il piccolo Haochen, il bimbo gravemente ritardato del sostegno: lui è “nato in forma aliena”, è “pura fisiologia”: dunque è distante anni luce da un’umanità che diventa sinonimo sempre più esplicito di violenza, pulsioni represse, dolore esistenziale.

Giulia De Sensi