Antonio Cavallaro: «Non dobbiamo fare l’errore di ritenere tutti i libri importanti e preziosi per il solo fatto di essere dei libri»

Responsabile della comunicazione esterna per Rubbettino e amante dei libri, Antonio Cavallaro si occupa di editoria religiosa con particolare interesse alla teologia e alla cultura ebraica. Con lui abbiamo avuto una lunga chiacchierata sul panorama culturale odierno, sugli scrittori di Calabria e sui temi dell’editoria, della lettura e delle nuove tecnologie della comunicazione.

Antonio Cavallaro, tu scrivi sul “Quotidiano del Sud. L’altra voce dell’Italia”, collabori per altre testate nazionali e gestisci un blog personale “Meditazioni metafisiche”. Dalle colonne cartacee a quelle digitali: dal punto di vista comunicativo, con quale di questi strumenti è più diretto il contatto con il lettore o con quella parte di pubblico meno avvezza alla lettura e all’informazione?

«Non è semplice comunicare usando la scrittura con chi non è avvezzo alla lettura, specie trattando certi temi che sono lontani dagli interessi dei non-lettori. Per questa ragione quando scrivo preferisco rivolgermi a un lettore tipo di cui conosco (o presumo di conoscere) le abitudini culturali.

«Per quanto riguarda web e carta stampata i due media tendono a somigliarsi sempre di più perché tendono a ibridarsi sempre di più. Fino a qualche tempo fa si operava una certa distinzione sul tipo di scrittura da adottare a seconda che la destinazione fosse il web o la carta. C’era l’idea che il lettore che legge su schermo lo faccia in maniera distratta mentre sulla carta si riesce a dedicare maggiore attenzione. Con il tempo si è visto che non è solo lo strumento a influire sul livello di attenzione ma sono cambiate le abitudini di lettura. Quanti hanno la fortuna di leggere oggi un giornale comodamente seduti in poltrona avendo un paio d’ore a disposizione? Il giornale si legge alla fermata dell’autobus o, prodigandosi in pose che farebbero arrossire qualsiasi contorsionista, mentre si prova a rimanere attaccati a un palo di una metropolitana opponendosi alla forza di inerzia in ossequio al principio di Galileo e circondati da centinaia di persone. Non solo. I tempi della comunicazione contemporanea sono diventati poi sempre più veloci e, per questa ragione, non c’è più tempo per la compostezza della scrittura giornalistica di un tempo. La scrittura è diventata dunque più rapida, più asciutta, più immediata. I lettori, dal canto loro, si sono abituati, anche grazie alla pervasività degli smartphone a leggere a lungo su uno schermo. Nessuno si pone dunque più davvero il problema se un articolo pubblicato sul web debba essere corto o scritto con frasi brevi da consentire alla gente di leggerlo senza fatica, perché è lo stesso stile che si adotta sulla carta.

«Non dimentichiamo inoltre che certi ragionamenti su lettura su schermo versus lettura su carta sono stati elaborati quando per “schermo” si intendeva un monitor a tubo catodico poggiato su una scrivania e non certo un display ad altissima risoluzione che può essere tenuto con una mano mentre si è in una delle innumerevoli file che ognuno di noi fa ogni giorno.

«Infine mi si consenta di notare che il numero di persone che legge la versione digitale di un giornale è sempre più alto quindi c’è di per sé una certa predisposizione alla lettura su dispositivi diversi. Questo lungo preambolo per dire che non credo che oggi ci sia più molta differenza tra scrittura per un giornale cartaceo o scrittura per un blog.»

 

Hai competenze molto variegate, dal dibattito politico ai temi della società; concentriamoci però sul mondo della cultura, il binario che percorri più spesso. Recentemente hai parlato di due importanti nomi della letteratura del Novecento: Mario La Cava e Fortunato Seminara. Figli di Calabria, trampolino da cui balzare verso la letteratura nazionale. Si fa un gran parlare sulle piazze sociali dell’etere del poco spazio riservato nelle antologie patrie agli scrittori nativi della Calabria. Una realtà? Un vacuo provincialismo? Un dannoso processo di autoghettizzazione? Partendo da una frase di un nostro grande scrittore, Francesco Perri, che sosteneva che “se non meriteremo un posticino nel Pantheon della narrativa e della poesia, è segno che non ne avevamo diritto”, proviamo a fare un po’ di chiarezza.

«Mi sono spesso chiesto anch’io perché scrittori di grande livello (penso per esempio a Corrado Alvaro) abbiano avuto meno fortuna di altri scrittori italiani, talvolta persino di scrittori meno dotati dal punto di vista letterario. Ho provato a darmi una spiegazione. Non so se sia quella giusta ma voglio condividerla con voi. La Calabria è una regione marginale. Lo è stata da sempre. Quando decantiamo le grandezze del Regno di Napoli dovremmo ricordarci che la Calabria era l’estrema periferia di quello Stato, glorioso o meno che fosse. Da Napoli ci si imbarcava direttamente per la Sicilia. L’isola veniva raggiunta via mare. La Calabria era priva persino di collegamenti stradali con il resto del Regno. Nei diari di viaggio di esploratori, letterati e di quanti visitarono la regione nei secoli passati capita spesso di leggere che gli osti napoletani, appena appurata dal loro ospite la notizia che questi voleva raggiungere la punta dello Stivale, sconsigliassero vivamente il viaggio perché eccessivamente, e inutilmente, rischioso. Alcuni ricevevano addirittura l’estrema unzione prima di mettersi in cammino.

«Questa marginalità si respira ancora oggi. La Calabria non fa notizia, è (insieme alla Basilicata e forse al Molise) una regione ai più sconosciuta. Provate a nominare a una persona di altre regioni Vibo Valentia (che pure è capoluogo di provincia) o Lamezia Terme: noterete nell’interlocutore uno sguardo confuso e interrogatorio. Ai più la Calabria evoca solo un luogo dove andare in vacanza al mare. Ricordo ancora lo sguardo incredulo di alcuni amici settentrionali quando dissi loro che nel mio paesino calabrese c’era mezzo metro di neve.

«Questa marginalità che si traduce in un disinteresse per la nostra regione ha ovviamente reso la vita assai difficile ai nostri scrittori. Questo il contesto generale. Ma ci sono due ragioni specifiche. La prima è l’assenza fino a tempi relativamente recenti di un’università. Un luogo cioè dove l’opera di uno scrittore diventa oggetto di analisi e studio ed entra a far parte del canone della letteratura nazionale. L’altra ragione è stata la mancanza – anche qui fino a tempi recenti – di editori che avessero la forza di promuovere e distribuire un autore a livello nazionale.

«Oggi, abbiamo sia l’università che case editrici con maggiori possibilità di distribuzione e visibilità e i risultati si vedono. Così, anche molti autori del passato (penso a Lorenzo Calogero, a De Angelis o anche agli stessi Padula, La Cava, Perri e Seminara) stanno conoscendo una nuova fortuna.»

antonio cavallaro editoria libri

Effettivamente i marchi editoriali calabresi in queste ultime stagioni stanno ripubblicando molte opere di scrittori nati in Calabria: Saverio Strati, Corrado Alvaro, i già citati Francesco Perri, Fortunato Seminara e Mario La Cava. Scrittori che, come hai scritto tu stesso, “sono certamente calabresi, ma allo stesso modo in cui Manzoni è milanese, Moravia romano e Pavese piemontese”, perciò con un respiro ultraregionale. Noi calabresi lo abbiamo capito oppure ancora no? C’entra quel primordiale “complesso di inferiorità” che riscontrava sessant’anni fa Pier Paolo Pasolini in una regione ultima per indice di lettura e, in generale, per azione culturale a livello europeo allora come oggi?

«C’entra proprio quel complesso di inferiorità. Quando un premio letterario ti dice che non vuole premiare un autore calabrese per paura che il premio si riduca ad apparire troppo “calabrese” capisci che c’è anche un provincialismo al contrario. Si può essere ipermetropi e si può essere presbiti. Ma in entrambi i casi si ha un difetto di visione e bisogna farsi curare.»

 

Nelle testate per le quali scrivi parli anche di e-book. Dieci, quindici anni fa eravamo in tanti a pensare che i libri digitali avrebbero potuto soppiantare il libro cartaceo, mandare in pensione coste, unghie, rilegature, carta color avorio e odore di inchiostro, di colla, di cellulosa. E invece siamo ancora qui a ficcare il naso in mezzo alle pagine fresche di stampa o gradevolmente invecchiate. Personalmente sono felice non si sia verificato questo sorpasso, ma la mia è una visione puramente romantica. Tu che spiegazione dai?

«Se è per questo, continuiamo a incidere tavole di pietra, scriviamo su pergamena, spediamo telegrammi e c’è anche chi ha ripreso a produrre dischi in vinile. Ci hai mai pensato?

«Proviamo a considerare l’insieme dei media come una sorta di ecosistema. Quando si introduce una nuova specie è molto difficile che le specie già esistenti scompaiano del tutto, in genere il sistema dopo un momento di caos riesce a riassestarsi su un nuovo equilibrio. Alcune specie predominanti, riducono il loro spazio d’azione, altre addirittura trovano delle nicchie che consentono loro comunque di continuare a vivere: la tv non ha spazzato via il cinema, ma nessuno si sognerebbe oggi di guardare un cinegiornale in un multisala. I telegrammi sono dei dinosauri di due secoli fa eppure continuiamo a usarli, non più per trasmettere comunicazioni urgenti ma per esprimere condoglianze o felicitazioni. Uso con regolarità la posta elettronica dal 1996, ma nessuno mi dissuaderà mai dallo spedire decine di biglietti natalizi ad amici e parenti sparsi in tutto il mondo per Natale. Con i libri è già successo qualcosa di simile. C’è qualcuno che comprerebbe oggi un’enciclopedia (magari a rate)?

«Gli e-book non hanno sostituito i libri di carta. Gli si sono affiancati. I lettori di e-book, come ho avuto modo di scrivere nella mia rubrica sul “Quotidiano” sono in genere lettori forti che amano alla follia anche i libri di carta ma che scelgono di leggere su un dispositivo per comodità o usano l’e-reader per quei libri (come alcuni thriller o letteratura mass market) che si leggono una volta soltanto e che spesso venivano stampati in edizioni economiche molto più effimere dei bit di un e-book. C’è anche chi (come il sottoscritto) acquista di alcuni libri la doppia edizione, carta e digitale: la prima rimane intonsa e immacolata in biblioteca, la seconda si legge su e-reader dove si può annotare, scarabocchiare, sottolineare senza paura di sciupare il libro custodito come un feticcio.»

 

Qualche mese fa il tuo collega Domenico Talìa, sulle colonne del “Quotidiano del Sud”, si poneva una domanda: “Ma un libro è ancora per sempre?”. Ecco, in questo periodo storico in cui in Italia ogni anno viene battuto il record di libri pubblicati – 60 000, 70 000 all’anno, una cifra astronomica pari a circa 190 libri al giorno –, libri che per la stragrande maggioranza finiranno al macero, un’opera, davvero meritevole, ha ancora la possibilità di attecchire nel lettore, di lasciare la sua impronta – quell’“alone duraturo” di cui parlava Vladimir Nabokov – sullo scenario culturale del nostro tempo?

«Le vie attraverso cui un libro giunge ai lettori sono imperscrutabili. Certo il battage pubblicitario ha la sua importanza ma spesso ci sono anche casi di libri che si fanno strada da soli e diventano in poco tempo un successo internazionale (penso per esempio alla Trilogia della città di K di Agota Kristof). Sull’enorme quantità di libri pubblicati è opportuno osservare che l’Italia pubblica quanto (e talvolta meno) facciano altri paesi occidentali. Il problema è semmai legato al numero di lettori che da noi (e specie al Sud) è sensibilmente più basso

 

Insisto: quante colpe hanno gli editori, grandi o piccoli che siano, in questa “lavatrice” che è l’odierno panorama editoriale italiano? E quante anche gli autori o scrittori che siano che, elementi essenziali di questa filiera (o giostra), si prestano senza protestare – se non in rare circostanze – a dinamiche che, a mio avviso, svalutano il libro nel suo ruolo di strumento culturale?

«So di creare scandalo ma un libro nel mondo occidentale contemporaneo non può essere considerato solo uno strumento culturale ma è anche un prodotto di mercato. Lo snobismo culturale ha fatto grandi danni al sistema editoriale italiano e ha portato in ultima istanza alla riduzione della pluralità e della bibliodiversità. Se avessimo capito prima che, come ricorda Franco Tatò in un celebre libro, l’editoria è un’attività “a scopo di lucro” oggi avremmo più case editrici e non sigle di un unico moloch che cambia cappello a seconda della situazione.»

antonio cavallaro editoria libri

Il filosofo Ralph Waldo Emerson diceva che “la biblioteca di un uomo è una specie di harem”, di cui, quindi, andare gelosi e avere cura. Ti chiedo il titolo di un libro della tua personalissima biblioteca domestica cui sei affezionato e che non presteresti per nulla al mondo.

«Ma io non presterei mai nessun libro della mia biblioteca! Hai visto mai che uno presti la moglie, anche se ne ha più d’una, come succede appunto in un harem?»

 

Non potrei essere più d’ accordo. Ultima domanda: si lega alla precedente, ma è un po’ un giochetto malizioso. In questa valanga di libri che ci travolge, diventa assai importante, anziché sostenere la retorica del leggere a prescindere, capire cosa non leggere. Perciò ti chiedo di dirmi uno o due libri editi negli ultimi anni che sconsigli caldamente di leggere.

«I libri soddisfano dei bisogni. Non è solo una questione di gusti. Pensa a una donna che vive una situazione familiare infelice, senza lavoro e senza opportunità di relazioni sociali soddisfacenti. Perché dovrei giudicare il fatto che questa donna legge un Harmony a settimana piuttosto che la Recherche di Proust? Probabilmente il suo livello di istruzione non le consente di fare letture più complesse e in quei romanzi può vivere “vite che non sono le sue” e colorare di rosa la sua esistenza grigia. A questo punto non posso che essere felice che qualcuno abbia scritto quelle storie e che qualcuno le abbia pubblicate.

«Poi c’è da dire che non dobbiamo fare l’errore di ritenere tutti i libri importanti e preziosi per il solo fatto di essere dei libri. Spesso idolatriamo i libri, attribuiamo loro dei superpoteri, pensiamo che siano sufficienti di per sé a sconfiggere ogni male… non è così purtroppo. Mentre stiamo conversando, si celebra in tutto il mondo la giornata della memoria. Bene. Saprai certamente che uno degli strumenti di propaganda antisemita più potenti usato per costruire la colossale montatura del “pericolo giudaico” fu proprio un libro I protocolli dei savi anziani di Sion. Un falso storico costruito ad arte. Possiamo dire serenamente che quel libro non avrebbe mai dovuto vedere la luce? In nome di quale libertà di pensiero dovremmo giustificare un’operazione editoriale simile? Anche in questo periodo di grande incertezza e paura che stiamo vivendo a causa della pandemia, nascono ogni giorno libri che mirano a confondere ulteriormente le persone e a diffondere false notizie. Ecco, questi libri non dovrebbero essere pubblicati.

«Ma siccome mi chiedi di essere cattivo, ti dico anche che sconsiglio caldamente Yoga di Emmanuel Carrère. È uno scrittore che amo molto ma questo suo ultimo libro mi ha annoiato mortalmente.»

Antonio Pagliuso