Quella volta che Stalin ci donò “Il Maestro e Margherita”

Sulla strada dunosa che regalerà Il Maestro e Margherita di Michail Bulgakov ai lettori di tutto il pianeta, intervenne, in maniera provvidenziale, anche Stalin, il grande despota dell’Unione Sovietica. Fu l’Uomo d’Acciaio, infatti, a dare una nuova opportunità allo scrittore che nel 1930 era stato bandito dagli ambienti culturali del Paese ed era oramai destinato alla miseria e all’oblio.

Che fosse uno scrittore di regime, comodo e accondiscendente non si può di certo affermare riguardo a Michail Afanas’evic Bulgakov, l’autore de Il Maestro e Margherita, immortale capolavoro della letteratura mondiale.

Bulgakov è stato uno dei maggiori scrittori della prima metà del Novecento, glorificato in tutta la sua grandezza soltanto postumo, nella seconda parte del Secolo breve. Lo scrittore nato a Kiev nel 1891, visse infatti in uno dei periodi più agitati della non certo noiosa storia russa; un’epoca tumultuosa, timorosa e malfidente, in cui il mondo culturale era colpito profondamente dalla censura, strumento per frenare e allontanare ogni pensiero sovversivo, ogni idea che potesse arrecare danno a un equilibrio costruito anche con l’uso della forza.

Censura: una macchina perfetta che, retta dalla politica bolscevica, si abbeverava alle fonti della morale e della religione, e, che per preservare la propria efficienza, coinvolgeva non soltanto le commissioni censorie appositamente istituite, ma pure giornalisti, critici, direttori di teatro allineati al regime.

Dalla Grande guerra all’Unione Sovietica

Erede di una agiata famiglia di insegnanti, ecclesiastici e medici, Michail Bulgakov intraprende inizialmente quest’ultima strada. Studia medicina e nel 1914, allo scoppio della Prima guerra mondiale, si arruola come assistente medico nell’esercito.

Pochi anni dopo, in Russia, dalla Grande guerra si passa direttamente alla Rivoluzione guidata da Lenin e Trockij, al crollo dello zarismo e alla crudele guerra civile che termina con la definitiva presa del potere dei bolscevichi e la nascita dell’Unione Sovietica. È il 30 dicembre del 1922.

In quell’anno cruciale per la storia del suo Paese, Bulgakov si è già trasferito a Mosca, primo centro culturale e nuova capitale della neonata URSS. Di fatti, al cessare del grande conflitto bellico, ha abbandonato la professione di medico chirurgo e cominciato a dedicarsi alla scrittura scrivendo per giornali come “Rossija” e “Nakanune” (la rivista degli scrittori russi espatriati in Germania) e componendo pièce per il teatro, passaggio fondamentale per gli autori del tempo. Col teatro ottiene rapidamente i primi discreti successi. Gli anni venti sono un decennio in cui il Paese ha sete di cultura e di conoscenza dopo troppo tempo di buio sotto la scure degli zar e della chiesa. Le persone leggono, frequentano i teatri, nascono riviste, scuole di poesia, associazioni di scrittori e università, anche nelle più remote cittadine del vecchio impero.

Nel ’23 Bulgakov accede così all’Unione degli scrittori russi, un patentino che gli dona una maggiore visibilità, non soltanto al pubblico ma pure all’occhio della censura sovietica entrata in attività fin dai primi giorni del nuovo governo socialista per prevenire ogni possibile controrivoluzione.

Michail Bulgakov Il Maestro e Margherita
Michail Bulgakov (Foto di Shentalinsky V. di dominio pubblico via Wikipedia)

Sotto l’occhio della censura sovietica

È il 1924 quando la GPU, la polizia segreta antenata dell’attuale FSB, iscrive il nome di Michail Bulgakov in cima alla lista degli intellettuali da sorvegliare. Lo scrittore, infatti, con la pubblicazione de La guardia bianca (romanzo divulgato a puntate sulla “Rossija”) aveva dato una sua opinione circa le recenti vicende politiche del Paese, abbracciando in particolare il punto di vista del popolo ucraino; per di più, con Cuore di cane – pubblicato l’anno seguente – aveva sottoscritto, adoperando la protezione non bastevole del romanzo sarcastico, la sua ostilità ai dettami del “comunismo di guerra”.

Lavori critici verso la civiltà sovietica, verso il governo dell’Unione e quindi rischiosi per il prosieguo della vita artistica e dell’esistenza medesima dell’autore.

Ma c’è un però. L’ex medico inviso a buona parte del Partito, infatti, è apprezzato, e pure tanto, da colui che sta al vertice del nuovo regime sovietico: parliamo di Iosif Vissarionovič Džugašvili da Gori, ovvero Stalin, il capo di tutto della nuova Unione Sovietica post Lenin.

L’amore di Stalin per la poesia

A questo punto occorre ricordare il retroterra umanistico e artistico di Stalin (la cui fotografia in alto è di Margaret Bourke-White, esposta al Museo di Roma in Trastevere durante la mostra “Prima, donna. Margaret Bourke-White”), grande appassionato di teatro e che da ragazzo, tra le pieghe di una infanzia e giovinezza difficili, amava cantare – fu capocorista della parrocchia di Gori – disegnare e, soprattutto, comporre poesie. Quello che passerà alla storia come uno dei dittatori più spietati del Novecento, da giovane adorava le poesie di Walt Whitman – il favorito di Cesare Pavese, per dire – che ne ispirò la composizione di alcune rime pubblicate negli ultimi anni dell’Ottocento su antologie e riviste e che trovarono gli apprezzamenti del poeta georgiano Ilia Chavchavadze, padre della Nazione e oggi canonizzato dalla Chiesa ortodossa georgiana.

Il trattamento speciale del Partito verso Bulgakov

Non è in nostro potere comprendere le imprevedibili acrobazie della vita, ma fatto sta che tale sostrato di sensibilità e cultura fa decidere a Stalin di non prendere provvedimenti ferali nei riguardi di Bulgakov, pur controllando, anche direttamente, l’operato e tenendo alta la guardia nei confronti di quello che considera una delle voci più autorevoli, e quindi pericolose, del suo Paese.

I giorni dei Turbin, trasposizione teatrale de La guardia bianca, ad esempio, viene etichettata quale opera non certo in linea con i principi sovietici, ma è comunque accettata dal Piccolo Padre in quanto dramma frutto di uno straordinario talento; e il talento il capo del Partito lo sa riconoscere.

La vita di Bulgakov è protetta, gode di un trattamento speciale, una tutela mai concessa ad altri grandi letterati in quei decenni (Gumilëv, Berberova, Mandel’štam), ma è comunque una vita guidata, come un burattino dipendente in tutto dai fili del burattinaio: una immagine che è molto più che una metafora. Il drammaturgo comincia a rendersi conto dello spessore delle sbarre della gabbia d’oro costruitagli attorno. Una gabbia il cui perimetro si stringe giorno dopo giorno.

Mentre nel Paese parte il primo piano quinquennale staliniano volto a sviluppare la siderurgia e che invece ammazzerà l’agricoltura favorendo lo scoppio di carestie – come quella del ’32-’33 in Ucraina, passata alla storia come Holodomor –, l’ostracismo nei confronti di Bulgakov cresce.

Nel 1929 lo stesso autore comprende di essere un uomo instradato sul viale del tramonto: nessun teatro ne mette più in scena i drammi, nessun giornale ne pubblica gli articoli, nessun circolo culturale lo accoglie. Bulgakov si sente un appestato e nella stessa estate prende la decisione di scrivere una lettera indirizzata a Stalin, all’ambiguo Maksim Gor’kij, padre del realismo socialista, rientrato dai suoi soggiorni nel golfo di Napoli, e a Michail Kalinin, presidente del Comitato esecutivo centrale dell’URSS e fedelissimo di Stalin, a cui è intitolata la città di Kaliningrad, exclave russa in mezzo all’Europa. Amareggiato e probabilmente facendo un po’ lo gnorri, Bulgakov chiede le motivazioni del bando nei suoi riguardi.

Vietato parlare agli sconosciuti “Il maestro e Margherita” di Michail Bulgakov
Michail Bulgakov (Foto di pubblico dominio condivisa via Wikipedia)

L’ultima lettera di Bulgakov a Stalin

La missiva non ottiene alcuna risposta. Così nell’autunno di quel 1929 Michail Bulgakov prova a scrivere un nuovo testo, più prossimo all’ideale comunista. La sorte della Cabala dei bigotti però non crea una cesura col passato recente: la commissione censoria ne vieta la messa in scena. Il segnale è oramai chiarissimo: Bulgakov è artisticamente morto, condannato al silenzio a vita.

Il 28 marzo 1930, dunque, scrive un’ultima lettera a Stalin e altri membri del Partito – tra questi ancora Kalinin e Vjačeslav Molotov, futuro Commissario del Popolo per gli affari esteri, celebre per il patto di non aggressione russo tedesco Molotov-Ribbentrop. Tra i fogli della lettera conosciuta come Al governo dell’URSS, lo scrittore muta radicalmente atteggiamento, si assume tutte le responsabilità circa i rifiuti alle sue opere – sono cinque anni che non pubblica o mette in scena drammi – e supplica il Partito di mandarlo via dall’URSS. Non intende scagliarsi contro la critica e la stampa avverse, ma sostiene che se tutti parlano male della sua arte – riporta che su 301 menzioni ritagliate dai giornali ben 298 sono “ostil-ingiuriose” – è evidente che essa non possa esistere in Unione Sovietica.

Chiede di ricevere l’ordine supremo di abbandonare insieme alla moglie Ljubov l’Unione. O comunque di essere oggetto di una qualunque reazione (“di agire comunque in un qualche modo”), perché in quel momento si trova dinanzi soltanto “la mendicità, la strada e la fine”.

“Io chiedo che sia preso in considerazione il fatto che l’impossibilità di scrivere equivale, per me, a essere sepolto vivo.”

È un ultimatum, al governo e, prima di tutto, a se stesso.

Il suicidio di Majakovskij

Qualche giorno dopo l’invio della missiva succede qualcosa. È il 14 aprile e nel suo studio moscovita si toglie la vita Vladimir Majakovskij, il più grande poeta del tempo, afflitto da problemi sentimentali ma anche dalla sensazione che quella rivoluzione bolscevica da lui sostenuta fin dal principio si stia trasformando in nulla di buono per il suo Paese. La notizia del suo suicidio sconvolge l’intera Unione Sovietica, in primis l’intelligencija e il Partito.

In quel giorno di primavera, infatti, ritornano a mente i recenti suicidi – quasi certamente suicidi – di altri due grandissimi esponenti di quella generazione d’argento della letteratura russa: quello del poeta Sergej Esenin nel 1925 e quello del romanziere Andrej Sobol’ l’anno successivo.

Pronto, è l’Uomo d’Acciaio che parla

È il 18 aprile 1930, il giorno dopo i funerali di Majakovskij a cui anche Bulgakov ha partecipato, che lo scrittore riceve una telefonata.

Così scrive Elena Bulgakova, terza e ultima moglie di Bulgakov, nel suo diario:

“Dopo pranzo era appena andato a dormire, come faceva sempre, quando si udì squillare il telefono, e Ljuba [la seconda moglie di Bulgakov] lo chiamò, dicendogli che era qualcuno del Comitato centrale che voleva parlargli”.

Chi era? Finalmente Kalinin? Oppure Gor’kij deciso a dare una mano d’aiuto al collega in difficoltà? Nessuno dei due: dall’altro capo del telefono si sente la voce più inaspettata, una voce dal profondo accento georgiano. È Stalin.

“L’abbiamo ricevuta la sua lettera. L’abbiamo letta, qua, con i compagni. Lei avrà una risposta, favorevole, al riguardo… O forse lei parla sul serio, quando dice che vuol andare all’estero? Insomma le siamo proprio venuti a noia, noialtri, eh?

Il tono della Guida è quasi burlesco; Michail Bulgakov è chiaramente stupefatto di ricevere ascolto da lui in persona, dopo la lunga indifferenza. Riesce però a controllare i nervi e a condividere col compagno Stalin un pensiero: “Io ci ho pensato molto in questi ultimi tempi, se uno scrittore russo possa o no vivere fuori dalla sua patria. E mi sembra che non possa”.

L’onnipotente segretario generale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica si dice pienamente d’accordo. Poi prosegue, andando sul concreto: “E dov’è che vorrebbe lavorare lei? Al Teatro dell’Arte?”.

E Bulgakov, di nuovo disorientato: “Sì, lo vorrei. Ma sono andato a parlarne e mi hanno detto di no”.

“Ma no, presenti domanda” conclude Stalin, sogghignando sotto i baffoni, quasi euforico. “Secondo me accetteranno.”

La perfida simpatia del potere, di chi sa che può disporre della vita e della morte di chiunque, di chi sa che comanda e comanderà per sempre, ché comandare è meglio che… insomma, ci siamo capiti.

Monumento di Mikhail Bulgakov e Behemot, il gatto del romanzo, a Vladikavkaz (foto di Anfisik condivisa via Wikipedia con licenza CC BY-SA 4.0)

La nuova serenità di Bulgakov

Sia chiaro, non vogliamo tuffarci nell’apologia cialtronesca dello “Stalin ha fatto anche cose buone”, ma portare alla luce un episodio determinante per un classico della letteratura del Novecento.

Il seguente 10 maggio, di fatti, Michail Bulgakov ottiene l’agognata occupazione, un posto come assistente regista al MChAT, il Teatro accademico dell’arte di Mosca. Grazie all’intercessione personale di Stalin, un barlume di serenità appare nella vita dell’autore che può concentrarsi sulla stesura di un romanzo cui sta lavorando da tempo: è un racconto dal titolo All’amico segreto, primo abbozzo di quello che diventerà Il Maestro e Margherita, l’indiscusso capolavoro di Bulgakov, tra i libri più letti della storia.

Il romanzo sul diavolo

Bulgakov collabora con il MChAT fino al ’36, portando in scena riduzioni delle Anime morte di Gogol’ e pure recitando in una replica del Circolo Pickwick di Dickens, ma la sua vita non durerà a lungo. Lo scrittore fa appena in tempo a ultimare il suo “romanzo sul diavolo” – come chiamava Il Maestro e Margherita durante le prime scritture – prima di spirare, a causa di una nefrosclerosi di cui era morto anche il padre, il 10 marzo 1940, mentre il mondo e la Russia scivolano nell’incubo della Seconda guerra mondiale.

Nato indirettamente grazie al placet di Iosif Stalin, Il Maestro e Margherita andrà in letargo per oltre venticinque anni successivi alla morte dell’autore. Pubblicato per la prima volta nel 1966 sulla rivista “Moskva”, non sarà accettato dalla censura a causa dei suoi riferimenti, non tanto velati, al Grande Terrore degli anni trenta. Pertanto, circolerà tramite samizdat, ovverosia la autoproduzione a macchina (il termine samizdat si può tradurre, appunto, con “pubblicare da sé”) e la diffusione clandestina di scritti indicati, per il loro contenuto, come illegali.

Manifesto dell’impareggiabile genio artistico di Michail Bulgakov, la storia del diavolo Woland che, assieme al suo seguito, crea scompiglio nella Mosca staliniana oggi è conosciuta in ogni angolo del mondo. Perché la letteratura è più forte di ogni dittatura.

Antonio Pagliuso

Foto Il Maestro e Margherita di Brad Verter condivisa via Wikipedia con licenza CC BY-SA 4.0