Recensioni: “Casa di giorno, casa di notte” di Olga Tokarczuck

Once upon a time in Nowa Ruda, potrebbe iniziare così, come una fiaba o un sogno universale; una casa di giorno, una casa di notte.

Casa di giorno, casa di notte è il titolo del libro di Olga Tokarczuk, premio Nobel per la Letteratura 2018, oggetto di una lectio a cura di Beatrice Masini con il club Fahrenheit alla libreria Ubik di Catanzaro.

La direttrice editoriale di Bompiani racconta della folgorazione per i testi dell’autrice e fluisce insieme a lei verso visioni alte, puro sguardo, ineffabile.

Ed è così ineffabile il quadro della Tokarczuk che è impossibile per il lettore vederne nel mentre l’arcolaio e il filo; tanto più si cerca di afferrare un senso tanto più quello, come nei sogni, viene dimenticato. Si deve stare attenti, allora, anche dopo e per chi scrive queste parole a non lasciarsi catturare dalle maglie troppo strette di una spiegazione. Si può fornire la propria, benché consapevoli di tralasciarne altre ugualmente logiche.

I pilastri del libro sono storie di persone, di abitanti di Nowa Ruda o di Pietno, sempre appollaiati su un sentimento di precarietà, morte, ricerca di sé e di altro, attesa, natura. Deve macerare, il libro intero, finché non si riescono a vedere le cuciture: come i capelli di altre donne usati da Marta per creare parrucche compatte, omogenee. 

Così il lettore deve compiere un atto di fiducia alla stregua di Pascalis con Kummernis: passare da contraddizioni perpetue che fanno eco al titolo; accettare un dio donna o no, senza forma, senza nome, puro amore in costante manifestazione; mettere in discussione tempo e spazio; soprassedere a veleni che non uccidono perché i corpi hanno logiche misteriose e perentorie.

Sarà sempre presente nel corso della narrazione una visione dall’alto, un “puro sguardo” come nel sogno dell’incipit: vede tutto, non è materico, osserva il presente, il passato, il futuro. La percezione è sempre quella di avere a portata di mano ogni tipo di segno per decifrare il mondo, ciascuno di questi personaggi è infatti avvolto da una nebbia in cui si intrecciano le visioni degli uni con quelle degli altri: un bosco che, alla fine dei tempi, si solidifica tanto da bastare un soffio di vento per spegnerlo. Il soffio mortale non arriva mai poiché tutto è immoto, eterno, o forse la fine del mondo era quello stato di immobilità e i segni non si erano colti.

C’è una visuale notturna, oscura, è quella che nasce con noi e muore con noi: siamo riempiti da un buio corporeo fitto, agevole, espandibile. La visione dall’interno è quella che, nelle fantasticherie di bambina, adottavo prima di dormire: erano i pensieri pre-onirici, deliranti, tenebrosi, l’immaginazione di stanze all’interno di sé meravigliose o abbandonate. Dalla visuale esterna, invece, come la voce narrante quando dormirà in giardino per far posto agli ospiti, osservavo o immaginavo (non ero convinta fossero cose diverse) le case avere gambe esili ma lunghe, muoversi, viaggiare per il mondo e mi pareva di sentire ogni rumore conoscibile e qualcun altro inventato. È un fuoco d’artificio sentire l’erba che cresce tenera, le comete, le stelle, i respiri degli addormentati; è affascinante percorrere le scale di un palazzo infinito come quello dei Von Goetzen, ma estenuante e malinconico.

“Esseri testimoni di se stessi
sempre in propria compagnia
mai lasciati soli in leggerezza
doversi ascoltare sempre
in ogni avvenimento fisico chimico
mentale, è questa la grande prova
l’espiazione, è questo il male.”

(Patrizia Cavalli, Poesie)

Poiché l’espiazione è non fluire, da qui la confessione: se non fossi umana, sostiene la narratrice, io vorrei essere un fungo. Non sarà stata questa l’intenzione originaria dell’autrice e tuttavia non importa, come non importa chiedersi cosa voglia dire: dice qualcosa e lega un filo a un sistema di ingranaggi sfuggevole che però ti spiega, ti aggiusta lo sguardo, l’udito, l’olfatto. Racconta con poetica cose che nel libro si reggono forti, mentre fuori sarebbero perse o spaurite: R., suo marito, si rompe il naso in seguito a un incidente. Da quel momento sentirà un odore specifico su oggetti diversi: l’odore della morte. Forse perché la teme, non come i Coltellinai: loro appendevano coltelli al soffitto e non avevano alcun timore di morire. Sembra tutto un gioco di consapevolezze, questo puzzle di storie, di luci platoniche e ombre di lupi, un calderone di funghi velenosi e aloe barbadensis piene di sole ma annoiate.

Piante o animali, umani o licantropi, non importa: si vedono le sostanze luminescenti o oscure fra le pagine, si toccano case o si costruiscono tetti per difendere le cose amate e poiché le parole o i costrutti ingannano, talvolta si deve guardare ai fatti, alla materia.

Casa di giorno, casa di notte, corpo nostro, corpi esterni: abbiamo due case e il confine è incerto, da non rendersene conto. Olga Tokarczuk ha svelato allora una costruzione esterna a ogni cosa, estesa senza limiti, ma anche interna, confinata; l’ha raccontato tramite piccole storie che hanno cambiato l’uomo e l’ha consegnato al mondo per restare perché – come lei stessa dice – chi narra diventa immortale, che siano vite di Santi o di uomini normali.

Valentina Falsetta