Recensioni: “È tutto vero” di Vittoria Camobreco

Un treno sferraglia lungo la costa, tra siepi di fichidindia, agavi, alberi di aranci e bergamotti, lambendo spiagge e canneti, così vicino al mare che quasi se ne sente lo sciabordio, la sua voce ancestrale, il canto dei marinai, il mormorio dei naufraghi e il verso dei leviatani o di altri mostri marini.

Locride, versante sudorientale della Calabria, ultimo Sud del continente, laddove finisce “la terraferma e le sue certezze”. Terra figlia di una cultura arcaica e sapiente, storica e simbolica, spesso invisibile perché nascosta, non tanto a causa di terzi, quanto più per un personale pudore alimentato da un connaturato scetticismo e timore. È in questa terra mitica e misterica che è ambientato È tutto vero, il romanzo non-romanzo di Vittoria Camobreco, edito da Città del Sole Edizioni.

La Calabria bella e dannata di Vittoria Camobreco

Un romanzo non-romanzo, sì; un romanzo fuori dai canoni, ché la storia di Camobreco – insegnante, giornalista e conduttrice televisiva – attinge a piene mani dal reportage, dalla cronaca e dalla quotidianità di una regione, la Calabria, bella e dannata, sedotta e abbandonata, che, negli anni, l’autrice ha contribuito a raccontare attraverso l’organizzazione di servizi giornalistici di rilievo nazionale.

La protagonista del volume è Morgana – alter-ego di Camobreco –, una giovane donna che svolge la professione di giornalista a Milano. Dalla più europea delle città italiane si trova a partire alla volta della Locride per una delicata inchiesta sul tema della legalità e in particolare sull’ultimo sequestro di persona avvenuto in Calabria.

I sequestri, una pagina nera nella storia della Calabria

Quello dei sequestri di persona è stato un fenomeno che ha segnato per decenni la storia e la narrazione della regione – dagli anni sessanta ai novanta, quando con la legge sul congelamento dei beni delle famiglie dei sequestrati proseguire con tale pratica si era reso sconveniente in rapporto ai rischi e all’impiego di forze umane impiegate dai clan.

Circa quattrocento sono i rapimenti di persona che alcune fonti riconducono all’anonima sequestri della ‘ndrangheta; un numero impressionante scaturito da un meccanismo che non poteva non coinvolgere anche la popolazione civile – si fa per dire – che, grazie all’indotto enorme che generavano i sequestri, riusciva a sfamare la famiglia.

Dal sequestro Getty a quello di Lollò Cartisano

Alcuni sequestri sono ancora vivi nella memoria della gente – come quello del 1973 di Paul Getty III, nipote del magnate del petrolio Jean Paul Getty, all’epoca l’uomo più ricco del mondo, o quello di Carlo Celadon del 1988, il più lungo di sempre, con il ragazzo veneto che rimase segregato per ben 831 giorni negli anfratti dell’Aspromonte, il monte candido della Calabria, tra nascondigli coperti da “alberi secolari, sterpi aggrovigliati, pietre a taglio vivo e torrenti cristallini” –, altri invece sono scivolati in un inghiottitoio d’omertà, nel dimenticatoio della storia, come quello di Lollò Cartisano, il caso al centro dell’indagine della protagonista di È tutto vero.

Perché fu sequestrato Lollò Cartisano?

Lollò Cartisano era un fotografo di Bovalino, cittadina della Calabria ionica nella quale era nato nel 1936, che nell’estate del 1993 fu rapito a causa delle sue parole e azioni contro i soprusi e le leggi della ‘ndrangheta e contro le estorsioni che venivano consumate ai danni dei commercianti della zona.

Un sequestro atipico, anzitutto perché la famiglia di Lollò Cartisano, un fotografo di provincia come tanti, non aveva certo disponibilità economiche da fare gola alle mafie, che si concluse con la morte dell’uomo nonostante la somma di duecento milioni di lire versata dai famigliari dello sventurato. Una morte accidentale, come rivelato da una lettera anonima nel 2003, dieci anni dopo la scomparsa di Cartisano, vergata in punto di morte con tutta probabilità da uno dei partecipanti all’azione criminale.

È un continuo intrecciarsi tra cronaca e fantasia quello che emerge dal romanzo di Vittoria Camobreco, con Morgana che si troverà a dialogare con una civiltà antica e lontana nel tempo, “un mondo metafisico, simbolico, che si palesa solo allo sguardo di chi sa sognare”, improvvisamente ricomparso nel suo soggiorno in Calabria.

Gli interrogativi di È tutto vero

Così come improvvisamente, nello scorrere della lettura, emerge una sequela di domande. Ma che vita hanno avuto i sequestrati che hanno fatto ritorno a casa, presso i loro affetti? Una vita devastata per sempre, segnata da una esperienza che non si può rimuovere dalla memoria?

Questo è un interrogativo che nel romanzo dà origine ad altri di matrice antropologica. Come è possibile che in una regione talmente pregna di bellezze naturali, abbracciata dal mare e picchiettata da monti dagli scenari incantevoli, vi sia gente capace di rapimenti, sequestri, omicidi?

Misfatti commessi in un mondo antico e immobile, spesso chiuso e volutamente circoscritto, certo, una terra su cui pare “siano franati insieme i detriti di diversi mondi”, per dirla con Guido Piovene, ma bellissima, affascinante, ricca di siti naturalistici e culturali – la Vallata dello Stilaro, il Parco nazionale dell’Aspromonte, la Villa romana di Casignana, la Cattolica di Stilo, il Teatro romano di Locri –, tanto che non ci si può non chiedere come l’uomo possa, dinanzi a cotanta bellezza, “provare sentimenti criminali, sopraffare, rubare, distruggere la vita degli altri”. Come ha potuto un popolo così grondante di cultura, di arte e di ingegno trasformarsi nel corso dei millenni in un popolo marginale, povero, reietto, abbrutito e incattivito?

Il peccato originale del calabrese

Una risposta, intrigante, prova a darla l’autrice, proponendo l’esistenza di un autentico peccato originale del calabrese, vale a dire quello di non essere stato in grado di opporsi mai alle “incursioni” esterne: un popolo sopraffatto in origine dai greci, poi dai romani, dagli arabi, dai normanni, dagli svevi, dai saraceni, dagli spagnoli, dai francesi, dai piemontesi… “Fiero pasto” dello straniero che ha certamente donato e lasciato molto, ma che al contempo ha tolto, corrotto, mutato. E forse è proprio questa, sostiene Vittoria Camobreco, la ragione profonda di questa atavica percezione di marginalità e di decadenza che il popolo calabrese non riesce a lasciarsi alle spalle.

Antonio Pagliuso