Recensioni: “Fubbàll” di Remo Rapino

In Fubbàll (edito minimum fax), Remo Rapino racconta storie di migliaia e migliaia di calciatori, quelli dimenticati, i fuoriclasse di cristallo che durano il tempo di un gol memorabile e i gregari scalcagnati, spremuti nell’arco di poche stagioni. Calciatori che non entrano nei libri di storia, ma di diritto nei libri, come questo, per tutti gli appassionati di calcio, lo sport che, nonostante le stiano provando tutte per farcelo odiare, resta quello più amato del mondo.

La maglia numero 1 al portiere, la numero 3 al terzino sinistro, la 5 e la 6 rispettivamente allo stopper e al libero (ruoli la cui definizione in molti saranno costretti a ricercare su internet), la 9 al classico centravanti di sfondamento e l’iconica 10 al fuoriclasse della squadra, quasi sempre collocato in una posizione offensiva. Sembra lontano e oramai irrecuperabile il tempo in cui il calcio seguiva questa antica liturgia, non distantissima dalle prime regole che ne regolarono il gioco nel 1863.

Poi, dalla seconda metà del Novecento, cominciò l’epoca delle modifiche, inclusa la rivoluzione della stagione 1995-96, da quando si abbandonò la numerazione tradizionale dall’1 all’11 per fare spazio ai numeri dall’1 al 99 che ogni calciatore sceglieva e tuttora sceglie fin dall’inizio del campionato e lo accompagna per l’intera stagione.

Le gavette e le illusioni raccontate da Remo Rapino

Fubbàll è il titolo del nuovo libro di Remo Rapino, in cui il vincitore del Premio Campiello nel 2020 con Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio (entrambi i libri sono pubblicati da minimum fax) dona una dignità letteraria – una rinverdita dignità letteraria – allo sport più amato e praticato del mondo, il calcio, “la cosa più importante delle cose meno importanti”, secondo una incontrovertibile massima di Arrigo Sacchi.

Storie di lente gavette, di apici evanescenti, di abissi repentini, di calciatori dimenticati, di quelli dell’ultima fila; storie reali o che potrebbero essere reali, comuni a migliaia di giovani, rinnovate di generazione in generazione. Rapino racconta le loro storie: la difficoltà a trovare spazio nelle squadre di vertice, le promesse mancate, la discesa nelle categorie inferiori, i lenti e inesorabili declini di giocatori generosi, gregari che durano poco, che vengono spremuti nell’arco di poche stagioni, calciatori che non entrano nei libri di storia.

Fra le pagine del suo lavoro, suddiviso in dodici racconti, Remo Rapino ci riporta a un calcio per uomini, a quello in cui non esistevano le sostituzioni (introdotte gradualmente, prima una, poi due, poi tre, a partire dal 1958 e oggi giunte a una noiosa quota di cinque per squadra, in certi casi addirittura sei), le pause per dissetarsi e la tecnologia buona soltanto a dare il colpo di grazia a uno sport già moribondo da qualche anno.

Un racconto popolare e raffinato

La narrazione alta e allo stesso tempo popolare dello scrittore abruzzese ci riporta ai fasti di un gioco semplice, fatto di cuore e polmoni, in cui ritroviamo i giocatori di un tempo che fu, coi loro fisici ossuti e i muscoli circoscritti solamente ai polpacci e alle cosce di quelle gambe sempre un po’ sbilenche.

“Al diavolo i piedi di velluto, che avere i piedi buoni non è la prima cosa nella vita, l’importante è starci e respirare la polvere o scivolare nella fanghiglia insieme agli altri.”

Personaggi che ci ricordano i calciatori più guasconi e stravaganti della nostra infanzia: René Higuita, il leggendario portiere colombiano tutto zazzera riccioluta, baffoni, assurde parate coi tacchi (il cosiddetto colpo dello scorpione) e palla al piede fino a centrocampo – altro che costruzione dal basso –; Jorge Campos, un metro e sessantotto di portiere, ma anche attaccante – trentotto i palloni messi in fondo al sacco nella sua carriera –, un’icona degli anni ’90 con le divise sgargianti che disegnava egli stesso; Taribo West, il difensore nigeriano noto non soltanto per la sua durezza in campo ma pure per le treccine in testa che colorava in base alla squadra – nazionale o di club – con cui giocava.

“Ogni volta che un bambino prende a calci qualcosa per la strada, lì ricomincia la storia del calcio”, scriveva Jorge Luis Borges. E quella di Remo Rapino non può che essere un’opera che prosegue su questo tracciato; un’opera romantica, ma coi piedi per terra, basata sulla concretezza di uno sport che sa essere crudele, lungi dalle ipocrisie soffocanti del nostro tempo, come, fra le innumerevoli, il dodicesimo uomo in campo identificato come il pubblico che non aggiunge assolutamente nulla alla fatica, ai dolori, alle lacrime di quello che potrebbe ancora essere il gioco più amato della Terra.

Antonio Pagliuso