Chiudono le edicole in Italia, ma il fenomeno interessa a qualcuno?Edicola a Monasterace Marina (prov. di Reggio Calabria)

Fari di cultura, specie nei piccoli centri dell’Italia periferica, le edicole stanno scomparendo. Ma, come per la chiusura dei negozi tradizionali e per la desertificazione dei centri storici, pare che la faccenda non importi a nessuno.

La presenza delle edicole sul territorio italiano si fa sempre più rarefatta. Una indagine di Unioncamere rivela che in Italia in quattro anni sono sparite quasi 2.700 edicole; di queste, 2.327 erano imprese individuali. Tutto ciò nel mutismo generale di governi nazionali e locali.

L’Italia senza più edicole

In Italia le edicole sono circa 11.900 (il dato è aggiornato al 2022); nel 2018 superavano di parecchio le 15.000 unità. Roma, chiaramente, è la città italiana con il maggior numero di edicole – oltre 1.100 in tutto il territorio della Città eterna – ma ne ha viste chiudere circa 300 negli ultimi quattro anni. La tendenza è simile in tutte le altre grandi città dello Stivale e non risparmia i centri di medie e piccole dimensioni. A Isernia, ad esempio, addirittura oltre un terzo delle edicole attive nell’anno 2019 non lo risulta più nel 2024. Drammatiche statistiche anche per Trieste e Ancona che registrano rispettivamente un -31,1% e un -30% di rivendite di giornali attuali rispetto a quelle presenti nel 2019.

Nell’arco di quattro anni circa tremila centri italiani hanno perso i loro punti vendita di giornali e periodici. Nel 2019 si contavano più di 16.000 localizzazioni, oggi circa 13.500.

L’indagine di Unioncamere è rafforzata da quella condotta dal Sindacato Nazionale Autonomo Giornalai (SNAG), entità aderente a Confcommercio. Secondo l’analisi dello SNAG, ben il 25% dei comuni della Penisola non può contare neppure sulla presenza di un’edicola entro i propri confini comunali.

Tante cause ma nessun rimedio concreto

Continuano quindi ad abbassarsi le saracinesche delle edicole italiane, luoghi che non vanno considerati esclusivamente esercizi commerciali ma autentici presidi sociali, fari di cultura e conoscenza, talvolta i soli possibili per una comunità, specie nelle aree interne e più depresse della Penisola.

Edicola di piazza Canossa, Mantova (1979)
Foto di Nick from Bristol, UK condivisa via Wikipedia con licenza CC BY 2.0

Le cause sono diverse: la crisi dell’editoria e dei giornali, il passaggio al digitale dell’informazione, nessun intervento davvero incisivo per tutelare e conservare la forma più tradizionale del settore, di certo anche l’appiattimento culturale di una nazione relegata da anni agli ultimi gradini per quel che riguarda l’indice di lettura in Europa. È un processo in atto da tempo, pertanto non può giungere come una notizia inaspettata se dal 2013 al 2023, nel giro di dieci anni, le nostre città hanno perso il 35,2% di edicole e il 31% di cartolerie.

Spariscono le edicole, i chioschi punti di riferimento delle comunità, e sparisce anche un mestiere che tante volte, nell’indifferenza generale che avvolge la questione, sembra sia stato condannato a subire il martirio sull’altare del progresso e di un nuovo modo di intendere il lavoro.

Negli ultimi anni, in più occasioni gli edicolanti hanno chiesto interventi strutturali, sgravi fiscali, norme adeguate ai tempi, una rottamazione delle licenze, una presa di posizione da parte dei governi, sia nazionali, sia locali – in ambedue le costituzioni, invece, troppo spesso protagonisti di un silenzio assordante circa l’argomento –, ma come risposta hanno invece ottenuto piccoli bonus, vacui contentini per allungare, in maniera perversa, la sofferenza, e poco più.

“La loro ritirata o chiusura” ha scritto Marcello Veneziani in un articolo sul tema di qualche tempo fa “è la sconfitta della nostra cultura e civiltà”.

Un processo molto ampio

Il triste fenomeno della chiusura delle edicole rientra nel più ampio processo di desertificazione dei centri storici e della scomparsa dei negozi tradizionali.

Ci troviamo pienamente nel gorgo della rivoluzione dei consumi, una rivoluzione accelerata dalla cupa parentesi della recente pandemia. Anche in Italia, come in ogni parte del mondo già globalizzato o globalizzando, spariscono le attività di vicinato, sia nei centri storici sia nelle zone periferiche.

Gli acquisti degli italiani si concentrano su cibo e abiti e generi voluttuari usa e getta, arrecando un danno non indifferente anche all’ambiente. Il nuovo ordine è quello dalla omologazione culturale propinata come cosa buona e giusta, come unica via per andare “al passo coi tempi”, per essere più smart, senza alcun rispetto di quello che si lascia dietro, del patrimonio culturale, della propria identità svenduta per trenta denari.

Svendita della propria identità e quindi del proprio Paese, ché le nostre città, in specie le città d’arte, quelle che dovrebbero essere fiore all’occhiello della nazione – concetto così sfumato oggigiorno –, sono oramai destinate unicamente allo svago dei turisti, come dei giganteschi luna park, in cui il turista può fare tutto quel che gli pare, penosamente legittimato dal fatto che paga, financo la tassa di soggiorno. E l’italiano, attirato dal dio denaro, non può che essere configurato come complice. E se noi stessi italiani non abbiamo più cura, ovvero rispetto, per il patrimonio artistico, storico e culturale del nostro Paese – senza eguali nel mondo, e non per banale campanilismo –, come possiamo pretendere che un turista in pantaloncini color kaki e inguardabili calzettoni di spugna bianchi e sandali color cuoio, pressoché ignaro della storia e dell’identità del luogo in cui si trova, possa averne?

Chiudono le latterie, aprono i distributori di bevande

La scomparsa dei negozi tradizionali è una costante che procede senza trovare ostacoli. Stregati dalle potenzialità del turismo del nuovo millennio – troppo spesso visto come unica leva da spingere per il “rilancio” delle aree più svantaggiate –, i governi succedutasi negli anni hanno agevolato la nascita di attività turistiche e per i turisti, danneggiando indirettamente chi nelle città e nei paesi ci vive tutto l’anno. La chiusura o il cambio di destinazione d’uso delle botteghe, delle osterie, delle latterie, dei negozi di artigianato, delle caffetterie, dei cinema, dei teatri e delle edicole rientra precisamente in questo diabolico disegno che concederà sempre più spazio ai non-luoghi del mondo globalizzato: la grande distribuzione organizzata, i centri commerciali, i “negozi” online.

E mentre le attività della tradizione italiana scompaiono, nelle nostre città spuntano come funghi b&b e affittacamere (gestiti da locatori senza scrupoli che, annusato il profumo del guadagno facile, riescono a spacciare per camere da letto pure ex onesti ripostigli per le scope) che hanno trasformato le nostre città in dormitori misti con bagni in comune, noleggi di biciclette e monopattini, depositi di bagagli a ore, magazzini in cui viene cucinato cibo da asporto da ingurgitare distrattamente lungo i marciapiedi, distributori di bevande e vivande di ogni genere aperti 24 ore su 24, tappe di un itinerario infernale di degrado e incultura che sembra inarrestabile.

Una agonia continua

Quella delle edicole e delle altre attività tradizionali italiane è una lenta agonia sotto gli occhi di tutti, ma di cui nessuno si interessa realmente, se non a giochi oramai fatti, quando, da perfetti cittadini del Paese del giorno dopo, giunge il momento di rammaricarsi, di versare inutili lacrime da coccodrillo e di edificare mausolei alla nostalgia destinati ad arrugginirsi alla prima giornata di pioggia.

La domanda finale non può che essere una, seppur pronunciata con poca convinzione: siamo ancora in tempo a intervenire oppure i buoi sono già scappati?

Edicola a Monasterace Marina (RC)

Antonio Pagliuso