Navi romane di NemiVeduta aerea dello scafo della seconda nave di Nemi, completamente emerso dalle acque. Foto di Anonimo - Museo nazionale della scienza e della tecnologia Leonardo da Vinci di pubblico dominio condivisa via Wikipedia

Da quasi duemila anni giacevano sul fondo del lago di Nemi. Il recupero fu una straordinaria impresa archeologica, ma la loro seconda vita non durò molto per via della Seconda guerra mondiale. Questa è la storia delle Navi romane di Nemi.

La caduta del Fascismo del 25 luglio 1943 e l’armistizio dell’8 settembre non coincisero con il cessate il fuoco in Italia. Al requiem del regime, infatti, la Penisola si ritrovò più che mai disorientata, spaccata a metà e al centro dei continui scontri fra fascisti e prime milizie partigiane, oltre che presa di mira dalla collera delle truppe tedesche, intenzionate a punire quegli italiani indistintamente marchiati come vigliacchi e traditori.

Fu in quel contesto storico caotico che l’armata tedesca, in ritirata dal Sud Italia, ricevette l’ordine di fare terra bruciata alle sue spalle. Si susseguirono scontri a fuoco, rappresaglie, financo assalti al patrimonio culturale del Paese che stavano abbandonando, come l’incendio delle Navi romane di Nemi. Era la notte fra il 31 maggio e il 1° giugno del 1944.

Le Navi romane di Caligola

Il racconto, poi divenuto leggenda, di due navi romane, risalenti all’impero di Caligola, adagiate, cariche di tesori, sul fondo del Lago di Nemi ha accompagnato la storia di quella che è oggi la Repubblica d’Italia per lunghissimi secoli. Il loro naufragio nel lago sui Colli Albani, infatti, era narrato fin dal I secolo d.C.

Con tutta probabilità le due erano delle navi da parata: la prima era un thalamegos, un panfilo reale che fungeva da edificio distaccato della villa – precedentemente di proprietà di Gaio Giulio Cesare – che l’imperatore Caligola, al secolo Gaio Giulio Cesare Augusto Germanico, possedeva nei pressi dello Speculum Dianae, il nome col quale era conosciuto il Lago di Nemi; la seconda una imbarcazione cerimoniale, una vera e propria nave tempio collegata con il monumentale santuario che sorgeva sul luogo, dedicato a Diana Aricina.

Il santuario, frequentato per tutta l’età imperiale e abbandonato con il diffondersi del Cristianesimo, è tuttora in gran parte sepolto. Alcuni reperti si trovano al Museo nazionale etrusco di Villa Giulia, alle Terme di Diocleziano e al Museo delle Navi romane di Nemi.

Realizzate per volere di Caligola, amante delle imprese reputate impossibili, le due navi erano degli autentici “palazzi galleggianti” nello specchio d’acqua. Gli architetti dell’imperatore costruirono i due navigli sul modello delle navi fluttuanti di altri sovrani come lo stratego di Syrakousai, la Siracusa antica, Gerone II e il re d’Egitto Tolomeo IV Filopatore.

Con tutta probabilità le straordinarie navi non hanno mai preso il mare, fatte costruire dall’esuberante sovrano soltanto per dimostrare la propria grandezza.

Mussolini e Bottai alla inaugurazione del Museo delle Navi di Nemi. Foto di anonimo – L’Illustrazione italiana del 5 maggio 1940 pag. 614 di pubblico dominio condivisa via Wikipedia

Il recupero delle Navi di Nemi

Tentativi di riportare a galla i natanti – anche per porre un freno alle insistenti missioni depredatorie – si susseguirono già dalla metà del XV secolo. La prima prova documentata risale al 1446 a opera di Leon Battista Alberti. I risultati furono sempre decisamente magri fin quando, nel 1928, Guido Ucelli, al tempo consigliere delegato delle Costruzioni Meccaniche Riva, diede vita al Comitato Industriale per lo scoprimento delle Navi Nemorensi.

Fu il governo di Benito Mussolini, considerandosi erede naturale dell’Impero romano, a organizzare l’ingegnosa impresa di recupero subacqueo, ridonando, seppur per poco tempo, agli italiani parte della loro storia.

Per realizzare il recupero, si decise di scavare un canale lungo trenta metri per far defluire l’acqua del lago e di utilizzare un impianto idrovoro galleggiante. Abbassato il livello del bacino per più di venti metri, gli ingegneri e operai del regime riuscirono così a sottrarre dalle acque le due gigantesche navi romane.

Il relitto della prima nave affiorò nel 1929; il secondo, recuperato con maggiori difficoltà e grazie al massiccio utilizzo delle potenti idrovore, riemerse nel 1931, con l’alaggio avvenuto definitivamente l’anno successivo. Dopo quasi due millenni sott’acqua, le due Navi romane di Nemi rividero la luce.

I reperti artistici delle due Navi

Dagli antichi scafi – che superavano i settanta metri di lunghezza – e sul fondo del lago furono recuperati frammenti di mosaici, ceramiche, fistole, bronzi, marmi, colonne, basi per colonne, terracotte, vasellame, ami, monete, ex voto, le due grosse ancore in legno con ceppo in piombo, lunghe più di cinque metri, e utensili vari.

Il recupero delle navi da parata servì anche a risolvere alcuni interrogativi. Per molto tempo, infatti, si era creduto che le imbarcazioni risalissero al tempo di Tiberio, regnante dal 14 al 37 d.C. L’analisi dei relitti e dei reperti stabilì, invece, che la datazione dovesse essere spostata appena un po’ verso i nostri tempi, ovvero al regno di Caligola, imperatore romano dalla morte di Tiberio al 41. È verosimile che i legni imperiali furono affondati dopo il suo assassinio, coerentemente all’intenzione di cancellare la memoria della vita e delle opere di Caligola.

Completato il recupero si diede il via alla costruzione, sulle sponde dello Specchio di Diana, del Museo delle Navi romane di Nemi su progetto dell’architetto Vittorio Morpurgo. Il sito fu inaugurato il 21 aprile 1940, in occasione del Natale di Roma. Meno di due mesi dopo il Duce avrebbe annunciato l’ingresso in guerra dell’Italia.

Il patrimonio culturale italiano sotto attacco

Giungiamo all’anno 1944. Con l’Italia in piena guerra civile, il Museo si era trasformato in un ricovero per sfollati.

Come detto, le truppe tedesche in ritirata avevano il compito di distruggere i simboli e il patrimonio dell’odiata Italia. Arcinoto è il saccheggio del Collegio rabbinico italiano e della Biblioteca della comunità ebraica di Roma, siti nella sinagoga della Capitale. Era l’autunno del ’43. Di qualche mese prima, era il 4 agosto, il bombardamento su Napoli che ebbe come obiettivo la Basilica di Santa Chiara. L’attacco portò alla distruzione degli inestimabili affreschi di Giotto.

Qualche rigo in più merita Napoli, fra le città più colpite dai rastrellamenti e dalle raffiche di bombe nemiche. Prima di costringere alla fuga la Wehrmacht con l’eroica resistenza passata alla storia come le Quattro giornate di Napoli, il capoluogo campano vide le fiamme avvolgere l’Università Federico II (12 settembre 1943) e l’archivio angioino-aragonese di Villa Montesano a San Paolo Belsito in cui erano stati nascosti – sigillati in oltre ottocento casse – preziosi documenti provenienti dall’Archivio di Stato risalenti ai secoli dal XIII al XIX, fra i quali alcune carte di Federico II di Svevia e volumi in pergamena angioini e aragonesi. Oltre ai documenti, nell’attacco alla Villa bruciarono numerose opere d’arte ivi riposte, come due ritratti di Botticelli, in precedenza trasferiti dal Museo civico Gaetano Filangeri.

Non solamente sotto attacco tedesco: Napoli subì bombardamenti anche dagli angloamericani che colpirono Palazzo Reale e furono pure protagonisti, nel Lazio, dell’intenso attacco alla Abbazia di Montecassino, risalente al VI secolo. Il sito, fra i monasteri più antichi d’Italia, fu messo a ferro e fuoco perché si credeva vi si fossero barricate le truppe tedesche nel corso della Battaglia di Cassino, durata per quasi tutta la prima metà del 1944.

L’Abbazia di Montecassino dopo i bombardamenti del febbraio 1944. Foto di Bundesarchiv, Bild 146-2005-0004 / Wittke / CC-BY-SA 3.0 condivisa via Wikipedia con licenza CC BY-SA 3.0 de

L’incendio e la distruzione delle Navi di Caligola

Altra tappa della distruzione della Penisola fu quindi l’incendio appiccato nella notte fra il 31 maggio e il 1° giugno 1944, tragico epilogo dello scontro fra le forze alleate e quelle naziste che avvenne attorno al museo, al cui interno avevano trovato riparo i militari del Reich.

Accerchiati dall’aviazione angloamericana, i tedeschi incendiarono l’edificio, riducendo in cenere le Navi di Caligola e altri natanti più piccoli custoditi al suo interno, prima di abbandonare il luogo il 2 giugno. Si salvarono i reperti artistici delle navi, messi al sicuro qualche tempo prima.

L’altra versione dei fatti

Sussiste anche una versione diversa dei fatti, propugnata da alcuni studi recenti. La versione alternativa in questione vuole che il fuoco in cui andarono distrutte le imbarcazioni nemorensi sia stato generato dalle granate lanciate dagli alleati durante le fasi più concitate dello scontro.

Decorazioni delle testate delle travi conservate a Palazzo Massimo, Roma. Foto di Antonio Pagliuso
Decorazioni delle testate delle travi delle Navi di Nemi conservate a Palazzo Massimo, Roma. Foto di Antonio Pagliuso

Il Museo delle Navi romane di Nemi oggi

Dopo una turbolenta fase post bellica, il Museo delle Navi romane di Nemi ha riaperto definitivamente nel 1988. Dal 2014 è gestito dall’attuale Ministero della Cultura. Nel nuovo allestimento museale sono esposti alcuni resti delle navi di Caligola e delle ricostruzioni del tetto e di molteplici attrezzi di bordo. Nel Museo è possibile ammirare anche una ricostruzione in scala 1:5 dei due antichi navigli.

Inoltre, presso la sede di Palazzo Massimo del Museo nazionale romano, sono conservati ed esposti numerosi bronzi recuperati dalle due navi. Fra questi: una balaustra e le decorazioni delle testate delle travi con teste di leoni, lupi e pantere.

Foto di Anonimo – Museo nazionale della scienza e della tecnologia Leonardo da Vinci di pubblico dominio condivisa via Wikipedia

Antonio Pagliuso