Recensioni: “La figlia del ferro” di Paola Cereda

La figlia del ferro di Paola Cereda (edito da Giulio Perrone) racconta una storia ispirata a una vicenda realmente accaduta tra il 1943 e il 1944 all’Elba, “sentinella più avanzata dell’Impero”, coriandolo di terra di una umanità dimenticata.

“Voglio vivere così, col sole in fronte, e felice canto, beatamente.” È la prima metà degli anni quaranta e, attraverso gli apparecchi radio sempre più diffusi in Italia, la popolare canzone di Giovanni D’Anzi e Tito Manlio entra nelle case del Bel Paese per lenire le notizie che provengono dai territori in cui gli italiani si sono tuffati in una guerra impossibile da vincere.

Sull’Elba, l’isola del ferro, dove da millenni la popolazione vive del lavoro di estrazione e lavorazione del minerale nelle miniere a cielo aperto – al tempo degli etruschi l’Elba era chiamata l’Isola dai mille fuochi –, al ritmo delle teleferiche che trasportano su e giù carbone e magnetite, il fracasso dei mitra, dei caccia e delle bombe sembrano lontano. Fino all’armistizio dell’8 settembre 1943.

“Che succede?”

“Ci bombardano!”

“’Stavolta pe’ davvero.”

“Sono gli inglesi.”

“Gli americani.”

“Macché inglesi e americani, so’ tedeschi!”

“Tedeschi?”

“Sì, perché adesso stiamo co’ gli alleati. ‘Un l’hai sentito? Lo ha detto Badoglio alla radio.”

“Prima bisognava combatte’ coi tedeschi, e adesso bisogna combatte’ i tedeschi?”

La confusione successiva all’armistizio

Col proclama di Badoglio, impetuosi quanto confusi, i venti di guerra arrivano anche all’Elba; le stradine della “sentinella più avanzata dell’Impero” si colorano del blu della Marina e del grigioverde dei militari. Giovani marinai e soldati stranieri che riempiono gli spazi lasciati dagli isolani partiti al fronte; anche nelle case dove le donne, sole, provvedono con onore agli inappagabili bisogni della famiglia.

Tra queste c’è Iole, la protagonista del romanzo di Paola Cereda, figlia di un anarchico ucciso dai fascisti per le sue idee contrarie alla unica linea di pensiero decisa dal partito, scomparso prima di riapprezzare, ancora una volta, la fiducia nel genere umano. Ha sedici anni Iole, un’età bastevole per far fronte a una guerra e a tutte le privazioni che essa comporta. Lava i cenci degli isolani, tentando di levare via, oltre al sudiciume, anche le loro meschinità. Sedici anni, un’età bastevole anche per tirarsi addosso tutte le malelingue delle piccole comunità in cui la vita non è mai faccenda privata, ma diventa più spesso argomento di discussione di chi si sente legittimato a discuterla, biasimarla, tirarne somme.

È una ragazza in pieno rigoglio Iole, una giovinetta che stimola gli appetiti degli uomini – gli elbani, sorpresi dalla sua improvvisa esplosione, e i soldati, bisognosi di un’“ora sola” di piacere prima di affrontare un nuovo giorno che potrebbe essere l’ultimo –, ma che aizza pure l’ancestrale astio delle donne “nei confronti di una giovinezza che appartiene a qualcun altro”.

Sotto le bombe, Iole è la sola che continua a esistere

La “bella lavanderina” sorride però, sorride sempre; ferrigna, è la sola a “esistere persino sotto le bombe, nella solitudine, davanti alle menzogne”. Pienamente ad “agio dentro i peccati” che scandiscono le giornate sue e di quel coriandolo in mezzo al mare, tra le macerie che si accumulano, i tetti sventrati delle case, i rastrellamenti, gli stenti, gli stupri, i morti, le bombe, prima quelle dei nemici, poi quelle degli amici liberatori.

“Che importa dei giudizi della madre e della gente: se c’è qualcosa che, a spremerlo, dà energia e movimento, prendiamocelo adesso.”

Iole ha scoperto l’amore ma non lo sa; Iole sta per diventare una eroina ma non lo sa; non può saperlo in un tempo retto dal suono delle sirene che avvertono di una imminente pioggia di bombe. In un tempo in cui lo sbarco degli alleati non pone fine alle barbarie, ma le rinnova, sotto vesti differenti, ambigue, con l’inizio della guerra civile e delle azioni brutali di chi si sente autorizzato a comportarsi da padrone nei riguardi di un popolo che ha “liberato”.

Come i tirailleurs dell’armata coloniale francese, soldati indigènes di un altro Paese “che, al pari di tutti gli invasori, aveva costruito un racconto coloniale che trascurava ciò che la Francia aveva tolto e per sempre rubato, per concentrarsi solo su ciò che aveva portato”. Giovani plagiati dalle disumanità che regolano il loro presente, dalla morte che li circonda notte e giorno, destinati a essere traditi e ricordati per la loro natura grezza, spinta alla bestialità: “Peggio di voi ci sono soltanto i civili che giocano a fare i soldati perché una volta, per caso, hanno sparato a un tedesco o a una quaglia”.

Ne La figlia del ferro non possono mancare i riferimenti storici. Importante quello del siluramento, da parte di un sommergibile della marina militare britannica, del piroscafo Andrea Sgarallino (22 settembre 1943, qualche giorno dopo l’armistizio), evento tragico in cui perirono circa trecento tra militari smobilitati e civili – una sciagura che portò a ogni famiglia elbana almeno un morto da piangere.

La figlia del ferro, il ritratto di una Italia che ha voluto dimenticare

Il mondo dipinto da Paola Cereda ne La figlia del ferro – tra i tanti romanzi in concorso alla XLI edizione del Premio Giovanni Comisso – è quello dimenticato dalla storiografia patria, di una civiltà povera, ma non misera, dignitosa, pronta a darsi sostegno, ma altrettanto rapida nel buttarsi addosso la croce, nell’edificare e rafforzare lo stigma, nel nascondere quello che è stato, ciò che tutti sanno. Un racconto durissimo, asfissiante in taluni passaggi, ma reale dell’intermezzo che tra la seconda metà del ’43 e la liberazione del ’45 scosse gli italiani; una breve ma cruciale parentesi, sovente fonte di imbarazzo, spesso messa da parte, se non dimenticata dalla narrazione ufficiale.

Antonio Pagliuso